Il problema di girarsi
Un libro sui luoghi comuni del calcio si intitola "Hanno deciso gli episodi", e non sarà una partita facile
“Hanno deciso gli episodi” è un libro sui luoghi comuni del calcio composto da 20 racconti: e da una postfazione di Stefano Benni intitolata 91° minuto che, con un certo sadismo, si diverte a devastare l’assunto da cui il libro è partito, e cioè che i luoghi comuni sul calcio siano divertenti. L’editore è Pendragon, casa editrice nata nel 1994 che ha sede a Bologna. Gli autori sono giornalisti, attori, sceneggiatori, autori televisivi, autrici radiofoniche, professori universitari, organizzatori di eventi, fondatori di Cuore, inteso come giornale, in gran parte saldamente bolognesi, geograficamente e calcisticamente parlando (tranne un milanista, uno juventino, uno del Livorno e uno che per motivi suoi da oltre quarant’anni si definisce «tifoso di una squadra scozzese»).
Il libro ha un’impostazione analitica, nel senso che i luoghi comuni del calcio sono analizzati uno a uno, settore per settore. Paolo Soglia, il curatore, parla a questo proposito di “luogocomunismo”: «La punta per definizione “vede la porta”, il difensore scarso “non vede la palla”, il Mister “vede la partita in un certo modo”, la gara in ogni caso va interpretata “nell’ottica del doppio confronto”. L’arbitro è “l’unico in tutto lo stadio che non ha visto il rigore”».
Il contributo di Giacomo Manzoli, professore di Storia del cinema al DAMS di Bologna, – che qui pubblichiamo – ha per oggetto il film La corazzata Potëmkin che indignò Fantozzi in una leggendaria scena di quel film (nella sua parodia “Kotëmkin”) e la partita Inghilterra-Italia che il film gli impedì di vedere. Il tema è la potenza del calcio di attrarre intorno a sé luoghi comuni e miti, a volte psicologicamente veri.
Ma prima, anche una gratuita sfilza di luoghi comuni che iniziano con il NON, tratti dal libro:
Non voglio parlare degli assenti, Non facciamo tabelle, Non partiamo battuti, Non è tempo di parlare di contratto, Non guardo come gioca l’avversario, Non dobbiamo guardare la classifica, Non firmerei un pareggio, Non parlo dei singoli, Non sempre vince la squadra migliore, Non abbiamo rubato nulla, Non hanno un gioco, Non dobbiamo esaltarci per questa vittoria, Non dobbiamo deprimerci per questa sconfitta, Non eravamo fenomeni prima e non siamo brocchi adesso, Non sempre vince la squadra più forte, Non discuto mai l’operato dell’arbitro, Non esiste la sudditanza psicologica, Non ho visto una brutta partita, Non è un allenatore da grande squadra, Non aveva più in pugno lo spogliatoio, Non arriva a mangiare il panettone, Non esistono più le bandiere, Non investiamo sui vivai, Non sarà una partita facile, Non è importante che abbia segnato io ma che abbia vinto la squadra, Non siamo stati abbastanza cinici sotto porta, Non contrastano l’uomo, Non è facile trovare spazio, Non sfruttano gli spazi, Non vengono incontro.
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Perché Inghilterra-Italia “non è una partita come tutte le altre»
(e La corazzata Potëmkin non è una cagata pazzesca)
di Giacomo Manzoli
C’è un luogo comune che ha a che fare sia con il cinema sia con il calcio e viene da una pellicola che rappresenta una vera e propria pietra miliare della koinè italiana, vale a dire di quei saperi condivisi che caratterizzano l’appartenenza a una comunità culturale, trasversale alle classi sociali, all’età, alla provenienza geografica e così via. La sua formulazione è inesorabile, ma proveremo a confutarlo: “La corazzata Potëmkin (NON) è una cagata pazzesca”.
Il nesso fra questo luogo comune cinematografico e il gioco del calcio emergerà in corso d’opera, ma non c’è dubbio che si tratti di un fulgido esempio di ciò che i francesi chiamano “idées reçues”, concetti ricevuti, idee già note in partenza, evidenze talmente ovvie che non c’è neppure bisogno di discuterle. Dunque (come affermava Roland Barthes nel celebre Miti d’oggi) sono totalmente “depoliticizzate”, fuori da ogni possibile dibattito.
Eppure, come detto, il celebre capolavoro di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn non possiede nessuna delle caratteristiche che definiscono, al cinema, il concetto canonico di “cagata pazzesca”. Un concetto cruciale, sul quale si è spesso interrogata la teoria del cinema, da Sadoul ad Aristarco, che ha coordinate precise, collocandosi precisamente nel punto esatto in cui il massimo della noia incontra il vertice della pretenziosità. Il nostro, invece, è un film estremamente breve, circa un’ora, che il cineasta sovietico, all’epoca giovanissimo (27 anni), realizza nel 1925 per celebrare il ventennale dei fatti di Odessa, chiara avvisaglia della Rivoluzione che sarebbe poi scoppiata nel 1917.
Ebbene, siamo a metà fra l’ammutinamento del Bounty, con i marinai affamati che si liberano degli ufficiali corrotti e crudeli, il film bellico, con le truppe che sparano ignobilmente sulla popolazione inerme e il racconto di avventura. I marinai diventano pirati e ribelli, issano la bandiera rossa (sulla quale manca solo l’effige della tigre della Malesia) e sfilano fra le navi della marina zarista che si rifiutano di aprire il fuoco sui loro compagni. Sparatorie, lotte, fraternità, avventura, continui capovolgimenti di fronte, raccontati con un linguaggio modernissimo, fatto di strappi, salti in avanti, associazioni di idee e immagini. Una gioia per gli occhi e il cuore dentro un racconto appassionante (al netto del fatto che – ovviamente – si tratta di un film muto e in bianco e nero, ma non è colpa di Ėjzenštejn se non erano ancora stati inventati il dolby surround e il technicolor). Com’è potuto accadere, allora, che il Potëmkin sia diventato quel che è diventato, nell’immaginario condiviso degli italiani, grazie alla geniale intuizione di Paolo Villaggio?
Semplice. Da una parte il film è finito in mano agli intellettuali, rappresentati, nella pellicola di Luciano Salce, dal temibile Guidobaldo Maria Riccardelli. Questi, invece di concentrarsi su ciò che il film cercava di fare – ovvero promuovere una rivoluzione popolare contro le convenzioni stantie e ipocrite dell’aristocrazia zarista – lo inquadra esclusivamente nella prospettiva dell’opera d’arte. Ecco allora che semplici strumenti come il “montaggio analogggico” o i dettagli dell’occhio della madre o degli stivali dei soldati, elementi che servivano a Ėjzenštejn per rendere più appassionante il racconto, diventano altrettanti tratti distintivi, prove del valore artistico del film. Da celebrare in quanto tali, come luoghi comuni, appunto.
Ma, a scatenare la reazione “rivoluzionaria” del povero impiegato, che fino ad allora si era limitato ad una resistenza passiva, è un altro elemento.
Fantozzi e i suoi colleghi, infatti, si decidono finalmente a reagire quando l’ennesima proiezione del film viene a scontrarsi con la possibilità di assistere ad uno spettacolo che – a differenza del film di Ėjzenštejn – ha per loro un valore simbolico straordinariamente forte. Il Potëmkin diventa inesorabilmente una “cagata pazzesca” quando il Riccardelli li convoca a visionare la sua copia privata durante la trasmissione di Inghilterra-Italia, evento che alludeva chiaramente alla storica prima vittoria ottenuta dagli azzurri a Wembley, il 14 novembre 1973, con un gol di Capello a coronamento di un catenaccio eroico, nel trentanovesimo anniversario della “battaglia di Highbury” in cui gli inglesi ci sconfissero per tre a due, contando sulla superiorità numerica e su una nebbia surreale.
Ebbene, il punto è che pochi film come quello scritto da Paolo Villaggio con De Bernardi e Benvenuti sono stati in grado di mostrare in modo così efficace che una partita di calcio non sono solo undici giovanotti in mutande che ne sfidano altri undici con lo scopo di mandare una palla dentro una porta.
Pur nella rappresentazione iperbolica e grottesca che la maschera di Fantozzi esige, è chiarissimo che il calcio è un fatto di cultura, con delle ritualità che si agganciano ad altri valori (alla figlia viene fatto indossare l’abito della prima comunione), a dei piaceri (la confezione familiare di Peroni e la frittatona alle cipolle), a delle competenze (la scommessa con Filini sul risultato), a delle proiezioni fantastiche e immaginifiche (il gol di Zoff, di testa, su calcio d’angolo).
E soprattutto ad un senso di comunità, che passa anche attraverso l’incorporazione di una serie di frustrazioni e di desideri che affondano le proprie radici nella storia nazionale (spezzare le reni alla “perfida Albione”…). Cose non sempre nobili, cose profonde, per certi aspetti inconfessabili, ma che sono in grado di determinare forme di coesione e condivisione impensabili altrimenti.
Una faccenda importante, insomma. Rispetto alla quale possono derivare due fenomeni.
Privato della possibilità di godere di questo spettacolo, di partecipare a questo rito collettivo e popolare, Fantozzi si incazza sul serio e – per la prima volta – tiene gli occhi aperti e vede il film per quello che è: un’ode alla rivoluzione. Caricato dalla privazione di tutto ciò che è compreso nel pacchetto “par tita di calcio”, Fantozzi si comporta finalmente come i marinai del Potëmkin, spezza le catene e si ribella, mettendo il direttore sui ceci e costringendolo a partecipare ai modi di quello spettacolo popolare di cui la partita di calcio è la forma idealtipica, nella sua apparente semplicità e immediatezza.
Abbiamo perciò un fulgido esempio di come un luogo comune si crea e si afferma nei decenni, come una verità scolpita nelle tavole della Legge. Affermando una cosa sostanzialmente falsa (il Potëmkin in quanto tale, lo ribadiamo, è un film bellissimo, leggero e piacevole) che in determinate condizioni può diventare strategicamente giusta. Scomodando addirittura Lévi-Strauss, potremmo dire che, in quanto mito, il luogo comune calcistico (come quello cinematografico) è fondamentalmente una verità psicologica.
© 2015, Edizioni Pendragon