Perché bisogna chiudere i CIE
Luigi Manconi e Valentina Brinis spiegano sul Manifesto perché i centri di identificazione ed espulsione degli stranieri irregolari sono diventati inutili e dannosi
Luigi Manconi, senatore del PD e attivista per i diritti umani, e Valentina Brinis, ricercatrice che collabora con la Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, hanno spiegato sul Manifesto i motivi per cui bisognerebbe chiudere i CIE, i centri di identificazione ed espulsione degli stranieri irregolari. Secondo Manconi e Brinis, i CIE sono diventati inutili e dannosi, perché di fatto sono strutture dove la permanenza degli immigrati avviene in condizioni durissime e che viene prolungata per un tempo molto superiore rispetto a quello previsto dalla legge. Delle persone che vengono trattenute nei CIE, solo il 50 per cento viene poi riportato nel suo paese d’origine, per diverse ragioni (alcune riguardano l’impossibilità di identificare il loro paese di provenienza, per esempio). Manconi e Brinis sostengono che sia necessario trovare sistemi alternativi di trattenimento ed espulsione degli stranieri irregolari. Per leggere il Manifesto online è necessario registrarsi: è gratis.
I Centri di identificazione e di espulsione per stranieri irregolari (Cie) sono nonluoghi precipitati nello spazio ottusamente vuoto di un nontempo. Forse le sedi più crudeli di privazione della libertà presenti nel nostro Paese: ed è proprio per questa ragione che intorno alla loro natura e alle loro finalità, alle norme che li regolamentano e alle iniquità che vi si consumano, si gioca una partita dura, molto dura, dall’esito incerto, condotta su molti piani.
Uno di questi, tutt’altro che secondario, è quello giudiziario. E da qui proviene, finalmente una buona notizia. Qualche giorno fa, la Cassazione, con sentenza 18748/15, ha annullato il provvedimento di trattenimento nel Cie di Ponte Galeria, all’estrema periferia di Roma. Provvedimento a carico di un cittadino libico di etnia tuareg impugnato dall’avvocato Alessandro Ferrara, collaboratore dell’Associazione A Buon Diritto. Il periodo di permanenza all’interno di quel centro era stato più volte prorogato, nonostante la stessa autorità libica in Italia si fosse da subito opposta al rimpatrio, perché avrebbe esposto lo stesso trattenuto «a un grave rischio per la propria vita e incolumità».
Quelle stesse autorità avevano constatato, inoltre, che l’impossibilità del rimpatrio costituiva «una situazione permanente» e non transitoria, che dunque faceva venir meno anche la necessità del trattenimento. Si tratta di una sentenza molto importante che conferma la totale inadeguatezza di una misura come l’ingresso nel Cie per persone che, sin dal principio, si rivelano inespellibili. Ne sono un esempio tutti coloro che vengono trattenuti più volte, anche sei o sette, senza che le autorità siano in grado di procedere al rimpatrio per mancanza di indicazioni attendibili sulla loro nazionalità. Basti pensare ai rom provenienti dalla Bosnia o dalla Serbia che non vengono riconosciuti come cittadini di quei paesi a causa di profondi cambiamenti geopolitici avvenuti nel corso degli anni ’90. La condizione di irregolarità, difficile da sanare, li condanna a ripetuti trattenimenti che si concludono sempre in un nulla di fatto.
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