Perché si riparla della “terza intifada”
E perché probabilmente è fuorviante discutere sul nome da dare ai nuovi intensi scontri fra palestinesi e israeliani
Negli ultimi giorni la stampa israeliana e palestinese – e quella internazionale – hanno scritto diversi articoli sul rischio che accada una nuova intifada, un termine arabo che significa “sussulto”, “rivoluzione”, e che indica una rivolta organizzata e giustificata dalle autorità palestinesi nei confronti dello stato di Israele.
Due intifada sono già avvenute alla fine degli anni Ottanta e all’inizio degli anni Duemila, e in generale di “nuova intifada” si riparla a ogni nuovo ciclo di violenze che accadono in Cisgiordania o in Israele. Secondo diversi commentatori, però, l’ipotesi di una nuova intifada stavolta è più solida rispetto al solito per via del contesto di violenza diffusa degli ultimi giorni: solo da sabato a mercoledì sono stati uccisi 4 israeliani e 5 palestinesi, mentre circa 970 palestinesi sono rimasti feriti negli scontri con l’esercito israeliano, che ha rafforzato la propria presenza in varie zone della Cisgiordania. Secondo diversi analisti c’entrano anche lo stallo delle trattative di pace fra Israele e Palestina e la pessima situazione economica in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Su Haaretz, un giornale progressista israeliano, alcuni giorni fa l’editorialista Anshel Pfeffer ha pubblicato un articolo intitolato “È cominciata una terza intifada?” in cui spiega che al momento «basta una sola altra morte, sia da una parte che dall’altra, per scatenare l’inferno».
Sia le autorità israeliane sia quelle palestinesi, per il momento, stanno comunque mantenendo un profilo piuttosto basso: il presidente della Palestina Mahmoud Abbas ha detto di volere evitare un aumento delle violenze; il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che il paese sta attraversando «un’ondata di terrorismo» ma che riuscirà a uscirne; un’ufficiale dell’esercito ha detto al Times of Israel che in questo momento la situazione è «sotto controllo».
Dall’inizio
Il nuovo ciclo di violenze è iniziato giovedì 1 ottobre, quando una coppia di israeliani è stata uccisa mentre stava viaggiando in macchina su una strada che collega le due colonie israeliane di Elon Moreh e Itamar, nel nord della Cisgiordania. Di conseguenza, come misura punitiva, Israele ha vietato l’accesso alla città vecchia di Gerusalemme – cioè la sua parte “araba” – a tutti i palestinesi non residenti nel quartiere, provocando diversi scontri e manifestazioni in Cisgiordania e Israele. Fra gli episodi di violenza più gravi dei giorni successivi ci sono stati l’uccisione di un bambino palestinese di 13 anni che viveva nel campo profughi di Aida, a Betlemme – che l’esercito israeliano ha detto di avere ucciso per errore – la sparatoria che ha causato la morte di un ragazzo di 18 anni a Gerusalemme, rincorso da alcuni coloni israeliani che hanno aizzato la polizia a sparargli, e l’uccisione da parte di un 19enne palestinese di due ebrei ultra-ortodossi a Gerusalemme. Mercoledì 7 ottobre è circolato un video durante il quale si vedono alcuni soldati israeliani che arrestano un ragazzo palestinese poco dopo essersi finti dei contestatori palestinesi. Fra mercoledì e giovedì, ci sono stati sei episodi di accoltellamenti nei confronti di cittadini israeliani da parte di palestinesi.
Di una possibile “terza intifada” si è iniziato a parlare in particolare dopo l’attacco agli ebrei ultra-ortodossi a Gerusalemme, avvenuto sabato 3 ottobre. Il ragazzo, che si chiamava Muhanad Halabi e studiava legge, poco prima di accoltellare e uccidere i due israeliani aveva scritto un post su Facebook che «la terza intifada è iniziata. La gente si ribellerà, e in effetti lo sta già facendo». Nei giorni seguenti il termine è stato ripreso da più parti. Domenica 4 ottobre “La terza intifada” era il titolo con cui ha aperto Yedioth Ahronoth, uno dei più diffusi tabloid israeliani. Sempre domenica, durante un’intervista radio, il capo dei negoziatori palestinesi per i colloqui di pace Saeb Erekat ha detto che «eventi del genere mi ricordano ciò che successe nel settembre del 2000. L’esperienza ci insegna che Israele non può limitare la libertà dei palestinesi con delle misure di forza».
Erekat si riferisce agli eventi che portarono alla cosiddetta “seconda intifada”, iniziata nel settembre del 2000 con alcuni gravi scontri in seguito a una visita dell’allora capo del Likud – il principale partito di centrodestra israeliano, lo stesso di Netanyahu – Ariel Sharon alla Spianata delle Moschee di Gerusalemme, che in molti ritennero una specie di provocazione (il sito è sacro sia per i musulmani sia per gli israeliani, e da anni la sua gestione da parte di Israele è considerata controversa). La seconda intifada si concluse nel 2005 e fu molto più grave della prima, che durò dal 1987 al 1993 e che portò principalmente a forme non violente di protesta come boicottaggi e manifestazioni, e i cui attacchi si concentrarono sull’esercito israeliano. Dal 2000 al 2005 morirono circa un migliaio di israeliani – perlopiù civili, in seguito ad attacchi terroristici – e più di quattromila palestinesi.
Anche lo stallo dei colloqui fra Israele e Palestina è indicato da molti come una delle possibili cause che potrebbe condurre a un’intensificazione delle violenze: fra il 2013 e il 2014 il Segretario di Stato americano John Kerry ha provato a riavviare delle trattative di pace, ma i suoi tentativi non sono arrivati a niente. Anche questa situazione ricorda molto cosa successe nel luglio del 2000, due mesi prima della seconda intifada: in quel mese fallirono alcuni importanti colloqui di pace, i cosiddetti colloqui di “Camp David” avvenuti anche in quel caso con l’intermediazione degli Stati Uniti.
Peraltro la situazione economica della Palestina è da anni gravissima e potrebbe causare nuove tensioni: a Gaza ci sono ancora molti problemi in seguito alla guerra combattuta nell’estate dell’anno scorso e di recente il tasso di disoccupazione giovanile ha raggiunto il 60 per cento. All’inizio di ottobre la Banca Mondiale, un’organizzazione che si occupa di sviluppo economico di paesi in difficoltà, ha previsto che nel 2015 l’economia palestinese si restringerà per il terzo anno di fila. I palestinesi sono anche generalmente insoddisfatti del proprio governo – che non viene sottoposto a un’elezione da dieci anni – e per come sta gestendo i propri rapporti con Israele: secondo un recente sondaggio compiuto dal centro studi Palestinian Centre for Policy and Survey Research il 42 per cento delle persone contattate crede che solo la lotta armata potrebbe portare come conseguenza l’indipendenza della Palestina, e il 57 per cento di loro appoggerebbe una nuova intifada in assenza di nuovi negoziati per la pace.
Opinioni diverse
Diversi analisti, comunque, hanno fatto notare che Israele difficilmente può permettersi una terza intifada. I loro argomenti sono prettamente economici: il turismo, una delle maggiori fonti di entrate di Israele, ne risentirebbe per anni, e in generale il sistema economico del paese è un po’ fermo (il ministero dell’Economia israeliano ha appena rivisto al ribasso le proprie previsioni di crescita del PIL per il 2015, dal 3,1 al 2,6 per cento). Altri ancora hanno spiegato che anche l’immagine internazionale ne uscirebbe danneggiata: grazie ai social network in caso di una nuova intifada girerebbero moltissimi video di operazioni militari dell’esercito israeliano, più volte criticato in passato per utilizzare forza eccessiva e sproporzionata nei confronti dei palestinesi. Le due precedenti intifada, inoltre, sono state molto diverse fra loro e non è chiaro quale forma potrebbe prendere un nuovo conflitto di questo tipo, né chi oggi avrebbe l’autorità sufficiente per “invocarla” (entrambe le intifada precedenti erano state appoggiate da varie organizzazioni e partiti).
Allison Kaplan Sommer, una giornalista di Haaretz, ha pubblicato di recente un articolo molto critico nei confronti dei media e dei giornalisti che si stanno chiedendo se una nuova intifada è già iniziata o inizierà presto, sostenendo che in questo modo si parla meno delle cause che stanno generando le proteste e il malcontento dei palestinesi.
Perché a buona parte dei palestinesi e degli israeliani – o i loro media – importa così tanto sapere “come” è chiamata una certa cosa? Omicidi e violenze avvengono da entrambe le parti con le stesse conseguenze a prescindere dal nome che le diamo. Eppure, la cosa ci sta a cuore. Questo mi porta a credere che il dibattito “intifada o non intifada” abbia più a che fare con questioni psicologiche che pratiche: probabilmente, è la natura umana che tende a inscatolare eventi terribili in categorie nette e riconoscibili. Nel caso delle “operazioni” della scorsa estate, si trattava davvero di “operazioni” o di “guerra”? E quando una data “operazione” diventa una “guerra”?
Quanto gravi dovranno essere la rabbia e lo scontento degli abitanti della Cisgiordania e a quante morti dovremo assistere per assicurarci di avere fra le mani una terza intifada? Non che saremo soddisfatti, a quel punto: la domanda successiva diventerà “quando finirà e quanti danni avremo sofferto fino a quel momento?”.