Come scrive Svetlana Aleksievič
Alcune pagine dal suo ultimo libro pubblicato in Italia, "Tempo di seconda mano"
Svetlana Aleksievic, a cui sarà assegnato il premio Nobel per la Letteratura – l’annuncio è stato dato giovedì 8 ottobre – ha pubblicato in italiano alcuni libri con l’editore e/o, e il più recente con Bompiani, intitolato “Tempo di seconda mano – La vita in Russia dopo il crollo del comunismo” (traduzione di Nadia Cicognini e Sergio Rapetti). Quest’ultimo è una raccolta di momenti importanti della storia recente della Russia, scritti nello stile di Aleksievič, ovvero attraverso la testimonianza di persone che li hanno vissuti o che hanno cose da raccontare. In questo capitolo si parla dell’attentato nella metropolitana di Mosca del 6 febbraio 2004, in cui morirono dieci persone.
A proposito di come si possa desIderare di voler uccidere tutti e poi si abbia paura di averlo desiderato
Ksenija Zolotova, studentessa, 22 anni
Al nostro primo incontro è venuta solo la madre. “Ksjuša non è voluta venire. Ha cercato di dissuadere anche me. ‘Mamma, a chi può servire? Loro hanno bisogno solo delle nostre emozioni, delle nostre parole, ma non possiamo essergli utili perché non hanno mai vissuto ciò che abbiamo vissuto noi.’” Era molto inquieta: a momenti si alzava con l’intenzione di andarsene: “Cerco di non pensarci. Mi fa male ripetere quello che è accaduto”, oppure si metteva a raccontare e non la si poteva più fermare, ma per lo più taceva. Come potevo consolarla? Da un lato la pregavo: “Non si agiti, stia calma.” Ma dall’altro volevo che ricordasse quel giorno spaventoso: il 6 febbraio 2004, l’attentato terroristico sulla linea del metrò Zamoskvoreckaja di Mosca, tra le stazioni Avtozavodskaja e Paveleckaja. In seguito all’esplosione erano morte 39 persone e 122 erano finite all’ospedale.
Non faccio che girare intorno al dolore. Non riesco ad allontanarmene. Nel dolore c’è tutto: tenebra, solennità, qualche volta credo che il dolore crei come un ponte tra le persone, un legame segreto; qualche altra sono in preda alla disperazione, penso invece che si crei un abisso.
Di quell’incontro di due ore nel bloc-notes non restano che poche frasi:
“… Essere delle vittime è talmente umiliante… Si prova solo un senso di vergogna. Non voglio parlare con nessuno di ciò che mi è successo, voglio essere come tutti gli altri e invece sono sola, sola. Riesco a piangere dovunque. A volte cammino per la città e piango. Uno sconosciuto una volta mi ha detto: ‘Ma perché piangi? Sei così bella e piangi.’ In primo luogo la bellezza non mi ha mai aiutato nella vita, e poi vivo questa bellezza come un tradimento, come qualcosa che non corrisponde a ciò che sento dentro di me…
… Abbiamo due figlie, Ksjuša e Daša. Vivevamo modestamente, ma visitavamo spesso i musei, andavamo a teatro e leggevamo molto. Quando le bambine erano piccole, il loro papà inventava per loro delle fiabe. Volevamo salvarle dalla brutalità della vita. Pensavo che l’arte potesse salvarle, ma non è stato così…
… Nella nostra casa vive una vecchietta. Va in chiesa e una volta mi ha fermato, pensavo volesse esprimermi la sua solidarietà, ma invece mi ha detto con cattiveria: ‘Ci pensi, come mai è successo proprio a lei e alle sue figlie?’ Ma perché, che cosa ho fatto per meritarmi quelle parole? Ho pensato che poi si sarebbe pentita… Non ho mai ingannato, né tradito nessuno. Ho fatto solo due aborti, lo so, ho commesso due peccati… Per strada faccio spesso la carità, anche se non è molto, do quello che posso. D’inverno do da mangiare agli uccelli…”
La volta successiva sono venute in due, madre e figlia.
LA MADRE
“Magari per qualcuno sono degli eroi… Hanno un’idea, si sentono felici, morendo pensano di finire in paradiso. e non temono la morte. non so nulla di loro. Hanno ricostruito al computer la foto di uno dei probabili terroristi. esiste solo una foto. Ma per loro noi siamo solo degli obiettivi, nessuno gli ha spiegato che la mia bambina non è un obiettivo, che ha una mamma che non può vivere senza di lei e un ragazzo che ne è innamorato. si può forse uccidere una persona che tutti amano? per me è un crimine doppio. andate in guerra, sulle montagne ad ammazzarvi l’un l’altro, ma perché dovete colpire proprio me? e mia figlia? Volevano ammazzarci in tempo di pace… (Tace.) ora ho paura di me stessa e dei miei pensieri. a volte vorrei ucciderli tutti, ma poi mi spavento per averlo desiderato.
Un tempo mi piaceva la metropolitana di Mosca. È la più bella metropolitana del mondo! Un vero museo! (Tace.) dopo l’esplosione… notavo che le persone entravano nel metrò tenendosi per mano. La paura per tanto tempo non si è attenuata… avevo paura a uscire di casa e a girare per la città, la pressione mi saliva di colpo. Quando viaggiavamo in metrò guardavamo con diffidenza gli altri passeggeri. al lavoro non si parlava d’altro. oh, signore, che cosa ci succede? sto sulla banchina e accanto a me c’è una giovane donna con una carrozzina, ha i capelli e gli occhi neri, non è russa. non so di che nazionalità sia, se cecena, osseta… non mi trattengo e lancio un’occhiata nella carrozzina: ci sarà davvero un bambino lì dentro? o qualcos’altro? Mi mette di cattivo umore il fatto di dover viaggiare con lei nello stesso vagone. Mi sono detta: no, non deve far altro che salire, io aspetterò il metrò successivo. si avvicina un uomo e mi chiede: ‘perché ha guardato dentro la carrozzina?’ Gli ho detto la verità. ‘allora anche lei?’
… Vedo una povera bimbetta tutta raggomitolata. È la mia Ksjuša. che cosa ci fa qui da sola, senza di noi? no, non è possibile, non può essere vero. c’è del sangue sul cuscino… Ksjuša! Ksjušen’ka!!! non mi sente. Le ho coperto la testa con una cuffia per non spaventarmi, per non vedere. La mia bambina! sognava di diventare una pediatra e adesso non sente più niente. era la più bella bambina della classe… e adesso… il suo visino… perché? Mi sento impigliata in qualcosa di appiccicoso e pesante, la mia coscienza si disintegra in mille pezzi. Le gambe si rifiutano di muoversi, sono come d’ovatta, mi trascinano fuori dalla stanza. Il medico mi redarguisce: ‘cerchi di farsi forza, altrimenti non le consentiremo più di vederla.’ cerco di farmi forza e ritorno nella stanza… non guarda verso di me, ma fissa un punto indefinito, come se non mi riconoscesse. con un’espressione da animale ferito, uno sguardo così non si può sostenere. non si riesce più quasi a vivere dopo questo. ora lo sguardo l’ha nascosto all’interno, ha indossato una corazza, ma tutto questo lo conserva da qualche parte dentro di sé. Le ha lasciato un segno. È sempre là dove noi non c’eravamo…
LA FIGLIA
“… Molte cose non me le ricordo… non le ho memorizzate! e non voglio! (La madre l’abbraccia, cercando di calmarla.)
… sotto terra è tutto più terribile. ora porto sempre con me una torcia nella borsetta…
… non si udivano né pianti, né grida. solo silenzio. Giacevamo tutti ammucchiati insieme… no, non avevamo paura… poi abbiamo cominciato a muoverci. a un certo punto ho capito di dover uscire da lì, l’aria era piena di sostanze chimiche che bruciavano. Mi sono messa a cercare lo zaino, dove c’erano i miei appunti, il portafogli… ero sotto choc… sotto choc… non sentivo dolore…
Una voce di donna chiamava: Serëža! Serëža! Ma Serëža non rispondeva… alcune persone erano rimaste sedute nella carrozza in una posa innaturale. Un uomo stava appeso, come un verme. Mi faceva paura guardare in quella direzione…
… camminavo… e mi sentivo barcollare… da ogni par- te si sentivano invocazioni d’aiuto. Qualcuno davanti a me si muoveva come un sonnambulo, prima avanzava lentamente e poi indietreggiava. tutti ci sorpassavano.
@Svetlana Aleksievic 2013
@Bompiani 2015