Non fare il nome degli stragisti serve?
Lo chiedono movimenti e persone sui social network per negare la fama agli assassini: il Washington Post si chiede se non sia un modo per eludere il vero problema
di Philip Kennicott – Washington Post
Nell’esortare suo fratello a uccidere un soldato fatto prigioniero, Agamennone chiese di far sparire dalla faccia della terra tutti i troiani, fino all’ultima traccia: «Facciamo morire tutti gli abitanti di Ilio, cancelliamoli completamente e non lasciamo nessuno che li pianga».
È strano trovare echi dell’età del Bronzo su Twitter, ma eccoli lì, con l’hashtag #forgetthezero: la prova dell’esistenza di un movimento che vuole negare fama e infamia a Chris Harper Mercer, l’uomo identificato come il responsabile della strage di giovedì scorso all’università di Rosenburg, in Oregon, in cui sono morte nove persone.
“Dimentichiamo la nullità” (“Forget the zero”) è spesso accompagnato da “Ricordiamo l’eroe” (“Remember the hero”, che in inglese fa rima), e da inviti allarmati a “Non pronunciare il suo nome” (“Don’t say his name”), che vengono rivolti anche ai giornalisti perché cambino radicalmente il loro atteggiamento verso l’attentatore: «Impegniamoci tutti a non pronunciare mai il suo nome: giornalisti, siete con noi?». Le agenzie di stampa non hanno perlopiù raccolto l’appello, anche se alcuni critici dei meccanismi del giornalismo hanno affrontato e discusso più volte la questione negli ultimi anni. Mentre cresce il numero delle stragi, mentre gli Stati Uniti devono affrontare quella che sembra un’impotenza collettiva nel fermarle, è nato un movimento che chiede di ignorare i nomi e le facce degli assassini, spesso sostenuto dai membri delle famiglie delle persone uccise nelle stragi precedenti.
Alcuni di loro hanno lavorato insieme per formare No Notoriety, un gruppo e un sito internet che chiede alle agenzie di stampa di prendere posizione ed evitare di pubblicizzare informazioni personali e altri dettagli sui responsabili delle stragi. Il movimento chiede tra le altre cose di “evitare di riportare il nome e l’aspetto dell’assassino dopo l’identificazione iniziale, tranne quando il presunto colpevole è ancora a piede libero, e diffondere i suoi dati potrebbe facilitarne la cattura” e di “rifiutarsi di trasmettere immagini e pubblicare foto o dichiarazioni fatte dal responsabile. I nomi e l’aspetto delle vittime devono essere invece ampiamente diffusi per far passare il messaggio che le loro vite sono più importanti di quella dell’assalitore”.
No Notoriety si basa su ricerche delle scienze sociali, su analisi di lettere e dichiarazioni lasciate dagli aggressori, e sulle preoccupazioni delle forze dell’ordine, a favore della richiesta di non diffondere il nome degli stragisti. Le loro ragioni sono sia etiche (è sbagliato prestare più attenzione agli assassini che alle vittime) e pragmatiche (il desiderio di attenzione può invogliare qualcuno a imitare i crimini e aumentare il numero dei morti delle stragi a venire). I post pubblicati da Mercer sul suo blog mostrano che era affascinato dal modo in cui la violenza pubblica può trascinare rapidamente qualcuno dall’anonimato all’infamia: «Un uomo che è nato come nessuno è ora conosciuto da tutti. La sua faccia è mostrata su tutti gli schermi, il suo nome è sulla bocca delle persone in tutto il mondo, per tutto il giorno. Sembra che più gente uccidi più sei sotto le luci della ribalta». Giovedì No Notoriety ha ricevuto un forte sostegno simbolico da John Hanlin, sceriffo della contea di Douglas dove si trova Roseburg, che ha detto in conferenza stampa: «non farò il nome dell’assalitore. Non gli darò l’attenzione che probabilmente ha cercato con questo atto orrendo e codardo».
Si può essere d’accordo con molti degli argomenti di chi sostiene la linea di No Notoriety: l’assassino non merita di essere famoso; i nostri pensieri devono andare alle vittime; c’è un legame preoccupante tra l’isolamento sociale, il desiderio di notorietà e le uccisioni di massa. Ma gli argomenti ragionevoli del movimento No Notoriety si sono persi nell’isteria dei social network, che li ha trasformati in obiettivi peggiori. Rafforzando simbolicamente chi sceglie di non fare niente rispetto alle cause profonde e ai mezzi letali di questi sanguinosi eventi. Di sorvegliare le nostre abitudini sociali e i mezzi di comunicazione, dato che non possiamo o non vogliamo regolamentare il nostro rapporto con le armi. È uno stratagemma. Inventiamo dei rituali, anziché affrontare l’ovvietà dei fatti: cioè che siamo sommersi dalle armi e incapaci di prevenire il loro tragico abuso, e che non vogliamo cambiare in meglio, non importa quante volte ci confrontiamo con quello che il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha definito giovedì in conferenza stampa «una violenza di massa diventata routine».
Fate un rapido test. Provate a ricordare il nome degli ultimi cinque stragisti che hanno ricevuto vasta attenzione dalla stampa: il giovane razzista bianco che ha ucciso nove persone in una chiesa a Charleston, in South Carolina; il giovane maschio narcisista che esultava in un video testamento dichiarando di essere «l’unico vero maschio alfa», prima di uccidere una decina di persone a Isla Vista, in California; l’uomo armato che a Fort Hood uccise tre persone, nel 2014; l’attentatore che nel 2013 uccise 12 persone nella sede della Marina a Washington DC; il ragazzo che uccise cinque persone prima di suicidarsi nell’università di Santa Monica nel 2013. Prendete punti in più se riuscite a ricordare anche il nome dello psicopatico che nel 2012 uccise 20 bambini nella scuola elementare di Newton, in Connecticut.
Esatto: i loro nomi sono presto dimenticati. Questo non diminuisce il pericolo che pone alla società il loro desiderio di notorietà: il sistema sanitario statunitense per curare i disturbi mentali è allo sbando e in giro è pieno di fucili facilmente reperibili quanto il cibo o le macchine. La fama può essere fugace ma il suo desiderio continua ancora ad avvelenare questi ragazzi (anche se ci sono anche altri potenti motivi, come l’odio cieco, il bisogno di vendetta per le offese ricevute, il razzismo e altre forme di intolleranza).
Come società siamo decisamente bravi a dimenticare, sia quello che dovremmo ricordare che quello che dovremmo lasciare nell’oblio. Quelli di noi che vogliono “dimenticare lo zero” sono aiutati dall’assoluta abbondanza di uccisioni di massa. Di fatto ci sono troppi nomi per poterli ricordare, e ce ne saranno molti di più. Nell’epoca in cui viviamo, che ruota attorno ai media, ci sono anche poche possibilità di tenere totalmente nascosti i nomi, le facce e altri dettagli sugli assassini. Se le principali testate giornalistiche decideranno di aderire alle richieste di No Notoriety, si tratterà soprattutto di un atto simbolico, una sorta di gesto fatto per mostrare vicinanza e correttezza, ma che avrà uno scarso impatto reale. Una cosa quasi superstiziosa, come lanciare il sale dietro la spalla sinistra. La superstizione regala a chi è passivo o senza potere l’illusione di avere il controllo della situazione.
Il movimento dei No Notoriety ha individuato un problema serio: se le soluzioni che consiglia funzionassero e fossero efficaci, sarebbe ragionevole che i giornali le adottassero tra le loro pratiche. Ma l’improvviso entusiasmo sui social media nel non nominare l’aggressore, spesso accompagnato dalla celebrazione dei gesti eroici – in questo caso l’audacia di Chris Mintz, un veterano dell’esercito a cui l’assassino ha sparato più volte mentre stava cercando di fermarlo – fa parte del bisogno di narrazioni istantanee, con categorie precostituite e familiari. È un comportamento esibito in un spazio pubblico per dimostrare la propria solidarietà e i propri valori.
In fin dei conti non è una risposta molto significativa, ma uno spettacolo collettivo messo in scena per tenere a bada la disperazione. Sarebbe forse meglio abbracciarla la disperazione, lasciare che ci strazi e ci finisca. Applicare il rituale dell’oblio e sorvegliare i post scritti sui social network dagli altri non servirà a niente. Invece, pronunciate il nome di questo ragazzo, guardatelo dritto negli occhi e ricordate: lo abbiamo fatto noi, lo abbiamo armato noi, gli dobbiamo qualcosa.
©Washington Post 2015