Cosa succede alle banche italiane
Marco Alfieri spiega sul Foglio storia e funzionamenti del sistema bancario, con molte perplessità
Marco Alfieri ha raccontato sul Foglio di giovedì storia, funzionamenti e trasformazioni del sistema bancario italiano e del mestiere del bancario, dicendo che il nuovo modello universale e la fusione di finanza e tecnologia hanno escluso ciò che c’era di buono nel vecchio sistema, che molti accusavano di essere provinciale, frammentato e clientelare: la prossimità e la vicinanza con i clienti e il territorio.
Un banchiere di lungo corso la chiama la sindrome “del bambino e dell’acqua sporca”. In Italia siamo campioni di specialità. Le cose non vanno bene? Serve riformarle? Si butta via tutto, si fa un bel falò e si passa con eccesso di zelo al modello opposto, salvo poi pentirsene (di solito quando è troppo tardi). Con le banche è andata esattamente così. Invece di far evolvere un sistema eccessivamente frazionato e superare clientelismi, bancocentrismo e opacità, si è deciso di usare la leva del rating, delle fusioni e del gigantismo come bacchetta magica e panacea di ogni male, scimmiottando modelli altrui e buttando via il bambino con l’acqua sporca, appunto. Somma illusione. Prendiamo gli ultimi dati sul credito alle imprese (fonte Bankitalia). Li ha messi in fila in modo intelligente Fabio Bolognini sul suo blog finanziario: “Dal 2010 è calato di quasi 90 miliardi, ma nello stesso periodo le sofferenze sulle imprese sono passate da 59 a 138 miliardi. Il credito buono è calato in media del 2 per cento, quello cattivo aumentato del 21 per cento all’anno. Non occorrono commenti. La percentuale delle sofferenze sulle imprese è passata nello stesso periodo dal 6,6 per cento al 17,2 per cento…”.
Certo la lunga crisi ha pesato tanto ma non c’è solo questo. Nella storia delle banche quando i sistemi di rating non esistevano ancora, non si trova uno stillicidio di queste proporzioni così prolungato. “Perciò delle due l’una: il sistema di rating interno proposto con le metriche di Basilea e validati dalla Vigilanza non funziona oppure se funziona non è stato usato adeguatamente da chi doveva interpretarlo. Oppure ancora un misto delle due…”. In ogni caso visti i risultati, continua Bolognini, tanto valeva tenersi il “naso” dei vecchi direttori di filiale che almeno conoscevano il territorio. Considerando che l’Italia resta un paese di campanili, di artigianato minuto e di piccole medie imprese diffuse.
Se guardiamo dal basso, dalla prospettiva dei territori produttivi, l’evoluzione recente del nostro sistema bancario, la chiave di lettura proposta da Bolognini non è affatto campata in aria, anzi. Dobbiamo pensare che l’Italia per il 90 per cento è e resta provincia; osservarla da Roma, Milano e Francoforte o attraverso le lenti delle grandi istituzioni finanziarie spesso fa prendere cantonate. A cominciare dall’identikit dei clienti/correntisti e dalle operazioni tipiche che restano, nel 2015 come nel 1980, ancorate al binomio “raccolta-impieghi”. Tradizionalmente i clienti delle banche nella provincia italiana sono giovani coppie con il mutuo da pagare o che abitano e lavorano in zona e appoggiano lo stipendio e le spese della casa, piccolo retail, artigiani e professionisti, pensionati con qualche soldo da parte, un buon bacino di aziende, famiglie consumatrici e alcuni clienti con grossi patrimoni che si fidano di un gestore specifico.
In questo senso le migliaia di filiali sparse per il territorio sono state dagli anni del boom in avanti il presidio al centimetro dell’Italia dei campanili. Spesso gli istituti più piccoli, Popolari e Credito cooperativo, sono nati dalle collette promosse tra i contadini e gli artigiani dal parroco del paese e non c’è distretto industriale in cui i soci non siano diventati prima metalmezzadri e poi capitalisti molecolari, conservando il ruolo di incubatrici d’industrie vincenti. Ancora oggi se prendiamo le principali province manifatturiere italiane, da Vicenza ad Ancona, più del 60 per cento degli sportelli è appannaggio di banche di territorio.
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