Attorno ai muri dell’Ungheria
Storie dalla cosiddetta "rotta balcanica", la strada – ufficiosa e ufficiale insieme – che centinaia di persone percorrono ogni giorno tra filo spinato e soldati per arrivare in Europa
di Luca Misculin ed Elena Zacchetti
A Gola, ultimo paese croato prima del confine con l’Ungheria, c’è una barriera interrotta. I militari ungheresi hanno cominciato tre giorni fa a mettere in piedi una barriera con del filo metallico ricoperto di piccole lame, ma non l’hanno ancora completata. La barriera è stata costruita lasciando una via di passaggio sulla strada che collega una vecchia stazione di confine croata, oggi completamente abbandonata, alla frontiera ungherese, che si trova poche decine di metri più in là. Lì attorno c’è parecchio movimento: oltre ai soldati ungheresi che su furgoni militari accatastano dei grossi sacchi ancora confezionati contenenti altro filo spinato, ci sono delle persone – dei civili – che controllano con un rilevatore GPS che la barriera sia costruita al posto giusto: se sconfina in Croazia il muro va spostato.
In questa parte di confine tra Croazia e Ungheria fino a pochi giorni fa non c’erano barriere. Il governo ungherese, che da diversi mesi adotta posizioni piuttosto intransigenti sui migranti, ha deciso di estendere il muro che aveva già iniziato a costruire più a est, dalle parti di Beremend. A differenza di altri posti di confine tra Croazia e Ungheria, a Gola i migranti non passano. Quelli che arrivano alla vicina stazione di Botovo, un piccolo paese a circa quindici minuti di macchina da Gola, non entrano in Ungheria dalla frontiera ufficiale: vengono accompagnati dalle autorità croate verso un sentiero che passa in mezzo a un bosco e di fatto superano il confine senza un regolare permesso. Al di là del confine vengono presi in consegna dai militari ungheresi. La Croazia lo permette, l’Ungheria anche. Entrambi i governi non si curano di quello che succede dall’altra parte e le autorità rispondono in maniera molto vaga alle domande dei giornalisti. La cosa paradossale è che i migranti arrivano a Botovo su treni organizzati dalle autorità croate e ripartono su treni organizzati dalle autorità ungheresi: ma di quello che succede in mezzo non si vuole occupare nessuno.
In treno fino al confine croato-ungherese
Negli ultimi nove giorni a Botovo sono arrivati una ventina di treni di migranti provenienti dalla stazione croata di Tovarnik, al confine con la Serbia. Un funzionario locale ha raccontato al Post cosa è successo la prima volta che le autorità hanno chiamato la piccola stazione cittadina per avvisare che un treno con a bordo oltre mille migranti si sarebbe fermato a Botovo, invece che arrivare fino a Zagabria come inizialmente previsto: «Ci hanno chiamato un quarto d’ora prima dell’arrivo del treno. Abbiamo dovuto correre velocemente per arrivare alla stazione. È stato molto caotico».
Dopo l’arrivo del primo treno, le autorità locali hanno cominciato a organizzarsi. Oggi alla stazione di Botovo i migranti sono stati accolti dalla polizia croata (non molta), da diversi funzionari civili e anche da un interprete, un farmacista siriano che da anni vive a Koprivnica, una città a pochi chilometri da Botovo. L’uomo, che lavora come volontario, è stato incaricato dalla polizia di dare istruzioni in arabo con un megafono ai migranti che arrivano in treno. A una prima occhiata il suo lavoro – dare informazioni – sembra indispensabile: un ragazzo di meno di vent’anni proveniente dall’Afghanistan chiede per esempio se è vero che è arrivato in Slovenia. Il clima generale alla stazione di Botovo è piuttosto buono: molti migranti – soprattutto ragazzi giovani – scherzano tra loro e con i giornalisti, si fanno fotografare e parlano con i poliziotti con toni tranquilli e cordiali. La polizia croata aiuta i bambini e le persone in difficoltà a scendere dal treno e fa salire su una propria camionetta chi non riesce a camminare fino al bosco.
La situazione è molto diversa al di là del confine. I migranti entrano di fatto in Ungheria illegalmente, da un sentiero il cui accesso per giornalisti e operatori umanitari è bloccato dalla polizia croata. Una volta superato il confine, i migranti vengono “scortati” da alcuni soldati che sembrano troppo attrezzati per gestire una situazione apparentemente di nessun pericolo (per esempio indossano caschi con le frange mimetiche). A differenza di quello che prevedono gli accordi di Dublino, i migranti non vengono registrati dalle autorità ungheresi, che non hanno alcun interesse ad accogliere i richiedenti asilo provenienti soprattutto dalla Siria.
Alla stazione vera e propria ci sono decine di poliziotti che si occupano di far salire piccoli gruppi di migranti sul treno. La procedura è molto lenta e dura più di un’ora: quando una carrozza è piena, il treno si sposta qualche metro più avanti e una nuova carrozza viene allineata sul percorso indicato dalla polizia. L’assistenza fornita ai migranti dalle autorità ungheresi è praticamente nulla: molto diversa da quella messa in piedi dai croati al di là del confine, dove diverse ONG e la Croce Rossa distribuiscono acqua e frutta, salviette igieniche e pannolini per i bambini. A Zakany l’assistenza si basa esclusivamente su piccoli gruppi di volontari che raccolgono fondi dalla popolazione locale e organizzano gli aiuti senza alcun contributo da parte del governo. C’è per esempio la Hungary Migration Aid, un’associazione umanitaria ungherese che ha poca simpatia per il primo ministro Viktor Orban: «Sono un volontario e sono qui per aiutare. Tutto quello che abbiamo qui viene dall’amore del popolo ungherese. Non del suo governo», dice la maglietta che indossa un attivista del gruppo. E ci sono anche gruppi più improvvisati ma egualmente efficaci: per esempio quello di Dorka, una ragazza ungherese che organizza raccolte fondi su Facebook. La polizia ungherese, comunque, non permette ai volontari di avvicinarsi ai migranti prima che loro siano saliti sul treno: solo quando le porte del treno sono chiuse, i volontari passano da finestrino a finestrino e danno ai migranti cibo, acqua e pannolini per i bambini. Dopo meno di mezz’ora dalla chiusura delle porte, il treno riparte in direzione di Nickelsdorf, in Austria.
Il muro ungherese a Beremend
A est, al confine tra la città croata di Baranjsko Petrovo Selo e la città ungherese di Beremend, c’è un contrasto altrettanto forte. Qui i migranti arrivano a bordo dei pullman messi a disposizione dal governo croato, che vengono soprattutto dal campo per migranti di Opatovac, al confine con la Serbia. I due paesi sono separati da un muro molto più alto di quello di Gola e molto meno provvisorio. Il governo ungherese, ci racconta un poliziotto croato a Baranjsko Petrovo Selo, ne ha completato la costruzione pochi giorni fa. L’organizzazione messa in piedi dalle due polizie sembra funzionare abbastanza bene, anche se con tempi lunghissimi: i migranti arrivano dalla parte croata del confine e aspettano fino a che gli ungheresi autorizzano l’attraversamento della frontiera, indicata con una linea rossa disegnata sull’asfalto. In territorio ungherese viene data loro una minima assistenza umanitaria, prima che siano fatti salire su altri pullman e portati in Austria.
Diverse cose funzionano poco. La polizia croata, per esempio, è molto diffidente nei confronti dei militari ungheresi. Alla domanda se sia più o meno sicuro avvicinarsi al muro, un poliziotto ci dice: «Io posso lasciarvi andare, ma non ve lo raccomando». Al di là del confine, ci dice un altro poliziotto, la presenza dei militari è massiccia: «I soldati ungheresi ci sono, anche se non si vedono» (in realtà ogni tanto si vede passare un mezzo militare di pattuglia). I croati lamentano anche che gli ungheresi parlano pochissimo inglese e l’unica soluzione che hanno è comunicare tra loro a gesti. Per molti migranti Beremend è una delle ultime tappe di un viaggio lunghissimo, partito settimane prima dalla Siria, dall’Iraq o dall’Afghanistan, e passato attraverso la Grecia, la Macedonia, la Serbia e la Croazia: la cosiddetta “rotta balcanica”.