L’ISIS sta perdendo o sta vincendo?
Un anno fa era il tema del momento, dopo gli ostaggi uccisi in Siria: ora c'è una situazione di stallo, i piani occidentali non funzionano e ci si è messa anche la Russia
Negli ultimi giorni Francia e Australia hanno annunciato l’inizio dei loro bombardamenti contro lo Stato Islamico (o ISIS) in Siria. Entrambi i paesi facevano già parte della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti contro l’ISIS, ma finora avevano limitato le loro operazioni militari all’Iraq. Gli aerei australiani hanno già compiuto i primi attacchi, mentre il governo francese ha detto che comincerà i bombardamenti nelle prossime settimane, non appena avrà più chiari gli obiettivi da colpire. L’impegno di Australia e Francia è considerato molto importante per la guerra contro l’ISIS, ma potrebbe non bastare: la guerra contro il gruppo estremista – che opera principalmente in Siria e Iraq – è cominciata da circa un anno ma finora non ha portato ai risultati sperati.
L’ISIS non sta vincendo, nel senso che i bombardamenti della coalizione internazionale in Iraq e Siria – uniti ai combattimenti contro curdi, milizie sciite ed esercito iracheno – hanno fermato la sua avanzata. Allo stesso tempo però non si può sostenere che l’ISIS stia perdendo: oggi governa ancora ampie zone di territorio sia in Siria che in Iraq, mantiene il controllo sulla città siriana di Raqqa, considerata la capitale del Califfato Islamico, e sulle città irachene di Mosul e Ramadi (le mappe aggiornate a inizio settembre sui territori controllati dall’ISIS in Siria e Iraq si trovano rispettivamente qui e qui). Soprattutto non sembra esserci un piano militare capace di sconfiggere l’ISIS una volta per tutte: le misure adottate finora si sono dimostrate insufficienti allo scopo e le altre soluzioni elaborate dall’amministrazione statunitense sono state fallimentari e inconcludenti. La situazione potrebbe cambiare con il recente rinnovato coinvolgimento militare della Russia a fianco del regime siriano di Bashar al Assad, anche se non necessariamente coi risultati sperati dall’Occidente.
Lo scandalo delle analisi sull’ISIS manipolate
I bombardamenti della coalizione guidata dagli Stati Uniti in alcuni casi hanno permesso di riconquistare dei territori che erano finiti sotto il controllo dell’ISIS, ma non sempre sono stati efficaci e in generale, come hanno raccontato negli ultimi giorni alcuni giornali americani, il loro ruolo è stato sopravvalutato. Un gruppo di analisti americani ha denunciato alcuni funzionari dell’intelligence statunitense accusandoli di avere manipolato i loro studi e le loro analisi, in modo da far credere al Congresso e alla Casa Bianca che gli attacchi aerei avevano avuto un’efficacia superiore a quella reale. All’interno dell’amministrazione americana è in corso un’indagine concentrata sul comando di intelligence del Centcom (il comando centrale dell’esercito americano in Medio Oriente, Nord Africa, Asia Centrale, Afghanistan e Iraq)) per capire come e cosa è successo.
Tre motivi per cui i bombardamenti da soli non funzionano
Al di là delle polemiche legate alla manipolazione delle informazioni sulla guerra contro l’ISIS, da tempo diversi analisti sostengono che i bombardamenti non sarebbero stati sufficienti per sconfiggere lo Stato Islamico, per diversi motivi.
Primo: finora diversi paesi della coalizione internazionale sono stati molto restii a unirsi agli attacchi aerei contro l’ISIS in Siria, per non rimanere incastrati in una guerra di cui da tempo è difficile dire chi siano i buoni e chi i cattivi. La stessa amministrazione Obama ha preferito un impegno militare non particolarmente esteso, limitando il numero dei bombardamenti giornalieri.
Secondo: i bombardamenti producono malcontento tra la popolazione civile. Per esempio diversi mesi fa in Siria gli Stati Uniti hanno bombardato le postazioni del cosiddetto “gruppo Khorasan”, un gruppo appartenente ad al Qaida, la stessa organizzazione di cui fa parte il Fronte al Nusra, uno dei gruppi più forti che si oppongono al regime di Bashar al Assad. Per la popolazione di molte zone della Siria, Assad è un nemico più grande dell’ISIS e colpire chi lo combatte viene considerato un gesto di aiuto allo stesso governo siriano.
Terzo: l’efficacia degli attacchi aerei è più alta nel momento in cui ci sono delle forze militari di terra a guidare i bombardamenti e per il momento gli Stati Uniti devono appoggiarsi all’esercito iracheno – che non si è sempre dimostrato all’altezza – oppure ai curdi iracheni e siriani, che però combattono per le loro terre ma non sono sempre disposti a combattere l’ISIS nelle zone controllate dai governi di Iraq e Siria, che spesso sono stati loro ostili.
Il nuovo piano americano in Siria
Gli Stati Uniti hanno fatto diversi tentativi per armare un piccolo gruppo di ribelli siriani ma finora nessuno ha dato risultati soddisfacenti. Il problema principale rimane individuare i ribelli “giusti”, che abbiano i requisiti richiesti dall’amministrazione americana: che siano quindi moderati e che siano disposti a combattere contro l’ISIS, invece che contro Assad. Mercoledì il generale americano Lloyd J. Austin III ha detto a una Commissione del Senato che gli Stati Uniti non riusciranno a raggiungere in tempi brevi l’obiettivo di addestrare 5mila ribelli: finora ci sono solo quattro o cinque siriani addestrati che stanno combattendo l’ISIS (sì, quattro o cinque – anche se sembra che il 20 settembre altri siano stati raggiunti da altri 75 combattenti), per un programma che è costato 500 milioni di dollari. L’amministrazione americana aveva cominciato a finanziare il piano dal dicembre 2014 e a metterlo in pratica da maggio. Per il primo anno l’obiettivo era di addestrare 5.400 siriani moderati, ma i risultati erano stati molto modesti: solo 54 combattenti avevano completato l’addestramento. A luglio, inoltre, un gruppo affiliato di al Qaida aveva attaccato i ribelli inclusi nel piano americano uccidendone diversi.
L’amministrazione Obama è sempre stata scettica sulla possibilità di addestrare e armare i ribelli siriani e solo dopo molte pressioni da parte di esponenti Democratici e Repubblicani ha deciso di procedere con il piano. Secondo alcuni critici il piano è stato intrapreso troppo tardi e senza sufficiente energia. Foreign Policy ha scritto che gli Stati Uniti stanno mettendo a punto un nuovo piano che prevede la formazione di piccoli gruppi di poche decine di combattenti americani da mandare direttamente nel nord della Siria in modo da aiutare l’aviazione a individuare gli obiettivi da colpire. Non è chiaro quando verrà implementato il nuovo piano e quanto potrà avere un impatto nella guerra contro l’ISIS.
È arrivata la Russia in Siria
Venerdì i primi aerei da combattimento dell’aviazione russa sono arrivati in Siria e gli Stati Uniti hanno iniziato colloqui militari con i generali russi per evitare incidenti. Da settimane oramai la Russia ha cominciato a intensificare il sostegno al governo di Assad, suo tradizionale alleato in Medio Oriente, inviando nel paese uomini e materiali. Fino ad ora il governo russo non è stato molto chiaro sulle sue intenzioni, ma secondo diversi esperti e diplomatici il messaggio del presidente Vladimir Putin è chiaro: la Russia non permetterà facilmente la caduta del regime siriano. Diversi analisti hanno scritto che la mossa della Russia è dipesa dalle recenti difficoltà delle forze fedeli al governo di Assad, che hanno perso terreno nei confronti dei diversi gruppi ribelli e che si trovano sempre più schiacciate proprio sulla costa occidentale, dove la maggior parte della popolazione è alauita, come Assad.
Le conseguenze di un intervento militare russo in Siria sono poco prevedibili per via delle decine di fronti di guerra aperti su tutto il territorio nazionale. Secondo alcuni esperti, uno degli effetti potrebbe essere prolungare la permanenza al potere di Bashar al Assad, spingendo – di reazione – diversi gruppi di ribelli a formare delle alleanze tra loro per opporsi al regime. Questi gruppi, anche i più moderati, potrebbero essere spinti quindi ad allearsi con l’ISIS, anch’esso nemico di Assad. L’ISIS potrebbe in quel caso trovarsi in una situazione di forza, appoggiato anche da diversi gruppi di ribelli non necessariamente estremisti.
E quindi?
L’ISIS non sta vincendo, ma non sta nemmeno perdendo. Nel corso degli ultimi mesi ha perso circa il 10 per cento del territorio che controllava all’inizio dell’anno (come potete vedere in questa mappa), ma non si può dire che l’influenza generale del gruppo sia diminuita. In Libia per esempio l’ISIS sembra avere rafforzato il suo potere, sfruttando il caos dovuto dalla presenza di due governi e due parlamenti (una coalizione di milizie islamiche a Tripoli e un governo riconosciuto internazionalmente a Tobruq). La situazione è resa ancora più grave dalle centinaia di migliaia di profughi – soprattutto siriani – che sono stati costretti a lasciare le loro case a causa dei combattimenti e che stanno cercando un modo per arrivare in Germania e nei paesi dell’Europa settentrionale. Il coinvolgimento della Russia nella guerra in Siria potrebbe cambiare di nuovo le carte in tavola, ma nessun analista crede comunque che la guerra contro l’ISIS possa avere una soluzione nel breve periodo.