Le app per bloccare le pubblicità su iOS 9
Si discute molto dell'opzione per disattivare banner e altri contenuti nella nuova versione del sistema operativo per iPhone e iPad
Tra le novità più discusse di iOS 9 – la nuova versione del sistema operativo di Apple per iPhone e iPad disponibile dal 16 settembre – c’è la possibilità di installare applicazioni che bloccano le pubblicità e altri contenuti sulla versione mobile di Safari, in modo da ridurre il consumo dei dati e al tempo stesso rendere più rapida la navigazione. L’opzione non è disponibile direttamente su Safari: per attivarla si deve scaricare una delle applicazioni per bloccare le pubblicità disponibili sull’App Store; dopo aver installato l’app, si devono cambiare alcune cose nelle impostazioni degli iPhone e degli iPad. Anche se può sembrarlo, il processo non è molto macchinoso e le app hanno di solito istruzioni da seguire passo passo per farlo.
Il nuovo sistema, che di fatto replica quello che si può fare già da tempo con molti browser sul proprio computer con i software “adblock”, ha polarizzato le critiche in due direzioni: da una parte ci sono quelli che lo ritengono una buona soluzione per alleggerire il Web su mobile e rendere più leggibili i siti, dall’altro quelli che sono allarmati dalla possibilità che queste app si diffondano molto portando di fatto a una riduzione dei ricavi derivanti dalla pubblicità, il sistema usato dalla stragrande maggioranza dei siti di informazione (il Post compreso) per finanziare le proprie attività. Gli unici che ci guadagnano di sicuro sono quelli di Apple: per gli utenti il caricamento delle pagine diventa più veloce, mentre i siti che vogliono essere sicuri di esporre i loro lettori alla pubblicità investiranno di più sulle app, dove le pubblicità non si possono bloccare ma una percentuale dei ricavi dev’essere versata proprio a Apple.
Negli ultimi giorni sono comparse sull’App Store numerose applicazioni che permettono di bloccare le pubblicità e molte stanno ottenendo un buon successo, anche nel caso delle versioni a pagamento, che di solito impiegano tempo prima di finire nella classifica delle app più popolari. Tra le più diffuse c’è al momento Peace, una applicazione realizzata da Marco Arment, sviluppatore conosciuto soprattutto per avere creato Instapaper. A differenza di altre app, la sua permette di bloccare diversi tipi di contenuti, oltre alle pubblicità: per esempio i tasti dei social network mostrati nelle pagine, il caricamento di altri elementi esterni al sito che si sta visitando e le sezioni dei commenti.
Venerdì 18 settembre, Arment ha però annunciato di averci pensato e di avere avuto una specie di crisi di coscienza che lo ha portato ad avviare la procedura per rimuovere Peace dell’App Store. Chi l’aveva già scaricata potrà continuare a utilizzarla, ma non saranno realizzati aggiornamenti, sarà inoltre possibile ottenere un rimborso per chi la vuole disinstallare. Peace costava 2,99 euro e si basava sulle informazioni fornite da Ghostery, che ha uno degli elenchi più ricchi che servono ai programmi per bloccare i contenuti. La lista era utilizzata sotto licenza e a Ghostery andavano parte dei ricavi derivanti dalla vendita dell’applicazione.
Un’altra app per bloccare la pubblicità di cui si parla molto in questi giorni è Crystal. Costa 0,99 euro e ha funzioni simili a Peace, quindi con il vantaggio di non richiedere molte conoscenze tecniche per essere attivata. Altre applicazioni sono molto più complesse e indirizzate agli utenti più esperti e permettono di gestire diverse funzioni, scegliendo cosa bloccare e cosa no e se permettere ai siti di lasciare cookie sul browser, piccoli file che sono usati come riferimento per tenere traccia delle attività di navigazione degli utenti.
Le nuove app per bloccare le pubblicità sugli iPhone e gli iPad applicano un modello già utilizzato da tempo sui tradizionali browser per computer, ma è proprio il fatto che ora questo sistema sia disponibile sui dispositivi mobili – dove si sta spostando la maggior parte degli utenti – a preoccupare le aziende attive sul Web e che da tempo basano i loro modelli economici sulla pubblicità online. Tra i più critici nei confronti della scelta di Apple di aprire Safari a questi sistemi c’è Nilay Patel, il direttore di The Verge, uno dei più seguiti siti di informazione tecnologica al mondo e di proprietà di Vox Media. Secondo Patel, le app per bloccare le pubblicità sono pessime perché tolgono importanti possibilità di guadagno agli editori più piccoli e indipendenti, che spesso si finanziano utilizzando i servizi per gli annunci pubblicitari di Google, senza avere altre fonti alternative di ricavo. Se questo tipo di app si dovesse diffondere molto, questi siti farebbero una brutta fine riducendo l’offerta di informazione e in un certo senso la libertà della rete.
Patel e altri osservatori reputano che quella di Apple sia stata una scelta opportunistica, indirizzata in primo luogo a danneggiare Google, società con cui è in concorrenza per quanto riguarda sia gli smartphone che la pubblicità. Google è il più grande gestore al mondo di pubblicità online, la gestisce su milioni di siti e sui ricavi che ottiene facendo da intermediario nella vendita della pubblicità basa buona parte delle sue attività, dal motore di ricerca allo stesso sviluppo di Android. Safari è il browser più usato su mobile, quindi se consente di bloccare le pubblicità crea un danno economico cospicuo a Google. Nel mezzo ci sono i gestori e gli editori dei siti, che hanno bisogno della pubblicità per mantenere le loro attività.
Apple in iOS 9 ha introdotto una nuova applicazione (per ora negli Stati Uniti) che si chiama News e che fa da aggregatore di notizie, grazie a una serie di accordi stretti con gli editori. Sulla sua app le pubblicità sono consentite, sono gestite da Apple e non ci sono possibilità di bloccarle. Facebook ha seguito di recente una strada simile annunciando “Instant Articles”, un progetto per rendere leggibili direttamente all’interno del suo social network gli articoli delle principali testate internazionali, garantendo loro ricavi derivanti dalla pubblicità e da altri tipi di accordi. Anche questa soluzione riduce di molto le possibilità per Google di piazzare le proprie pubblicità e, al tempo stesso, fa aumentare il tempo di permanenza degli utenti all’interno di Facebook, che in un certo senso già oggi è per molti una sorta di alternativa al resto del Web.
Tra i sostenitori del blocco delle pubblicità, i più convinti sono naturalmente gli stessi sviluppatori delle applicazioni per farlo. Prima di avere cambiato idea Arment, per esempio, sosteneva che editori e gestori degli annunci pubblicitari dovrebbero vedere la novità di iOS 9 come un’opportunità per migliorare la loro offerta e per rivedere le attuali soluzioni per mostrare la pubblicità. Le principali critiche riguardano il fatto che gli annunci lasciano in giro cookie per tracciare la navigazione degli utenti, che sui dispositivi mobili gli schermi sono più piccoli e di conseguenza i banner rubano troppo spazio ai contenuti e che il caricamento degli annunci porta al consumo dei piani mensili dati per la navigazione tramite rete mobile. E secondo gli sviluppatori non c’è una contraddizione nel fare pagare agli utenti un’applicazione per non avere la pubblicità: è una scelta legata ad avere siti più leggeri e meno intasati di annunci, dicono.
Nelle ultime ore al tema delle pubblicità se n’è aggiunto un altro legato ai sistemi utilizzati per conteggiare le visite sui siti, dati molto importante per chiunque gestisca e amministri un sito internet per capire quali cose sono più lette, da chi e in che momento della giornata. Alcune delle applicazioni per Safari oltre a bloccare gli annunci pubblicitari possono anche bloccare Google Analytics e altri servizi simili per i conteggi delle visite, cosa che potrebbe complicare la vita a molti siti a prescindere dalle loro dimensioni.
Tutto, comunque, dipenderà da quanto diventeranno diffuse queste applicazioni e quante persone decideranno di attivarle sul proprio telefono. Le estensioni per i browser sul computer esistono da tempo e sono ampiamente utilizzate, ma non ci sono dati sufficienti per stabilire quale impatto abbiano avuto negli ultimi anni.