Ciascuno di noi recita
Alessandro Piperno riflette sulla versione di noi che spacciamo agli altri, e a noi stessi, a partire da una giornataccia in università
di Alessandro Piperno
Nel numero 71 della rivista “Nuovi Argomenti”, che esce il 15 settembre, c’è un’ampia sezione sul tema dell’impostura curata da Filippo Bologna, con articoli di Enrico Buonanno, Gianni Clerici, Luigi Guarnieri, Manuela Maddamma, Luca Mastrantonio, Giulio Silvano, Matteo Tevisani, Filippo Tuena. E una versione più estesa di questo racconto di Alessandro Piperno sul rapporto che tutti abbiamo con l’idea pubblica (e propria) di noi stessi e con la recitazione di un ruolo.
Da quando un paio d’anni fa è morto il mio Maestro (così gli accademici chiamano i docenti che li hanno formati) non passa giorno che non pensi a lui. Seduttore mefistofelico, oratore meraviglioso, sfrenato manipolatore non c’era nessuno più compreso nel ruolo di Professore e tuttavia così poco professorale. Una mattina mi disse che era tempo di darsi del tu (ci conoscevamo da dieci anni): a ora di pranzo ci aveva già ripensato, inorridito all’idea che mi rivolgessi a lui in modo informale.
Non doveva essere facile coniugare attitudini antitetiche come la pompa accademica e la franchezza artistica. (E quando dico artistica alludo agli artisti di strada, funamboli pieni di improntitudine). Se è vero che il talento è il modo di rendere personale l’ordinario e peculiare l’universale, allora il mio Maestro resta l’individuo più talentuoso in cui mi sia mai imbattuto. Vorrei specificare però che il terriccio spirituale in cui il suo genio fruttificava non aveva niente di fragrante: egotismo, malinconia, disperazione. Poi c’era la crudeltà, ma temo quella vada ascritta all’infantile incapacità di comprendere fino a che punto le sue parole potessero massacrare l’interlocutore. Al fondo di tutto, la paranoia. Vedeva nemici ovunque, soprattutto dove non c’erano. Poiché il suo era il solo disincanto che riusciva a tollerare, ai coetanei preferiva sempre e comunque i giovani.
Il mio Maestro adorava essere chiamato Professore. E bastava vederlo in azione per capire che quel titolo gli stava come un blazer doppiopetto a David Niven. La lezione era la sua riserva di caccia, il luogo in cui l’eloquenza naturale spiccava il volo fino a sfiorare vette soprannaturali. Non aveva pudore a parlare di argomenti che l’accademico medio evita come la peste: amore, gelosia, invidia, denaro, morte, eternità, insomma la battaglia per la vita. Spaziava da Platone a Gino Paoli con la naturalezza del crooner ma senza nessuna concessione alla demagogia. E che forbitezza stupefacente! Non c’era studente che non abboccasse. Da baudelairiano irriducibile ci invitava a occuparci solo di grandi cose.
La fine dei corsi, gli ultimi giorni di primavera, corrispondeva alla morte civile. L’aula universitaria (quella che oggi gli hanno melanconicamente intitolato) era il suo ring, la pista di pattinaggio, l’arena imbrattata di sangue dei mille tori che aveva infilzato. Lì aveva fatto vibrare i cuori di sospirose Bovary e di disadattati cronici. Con generosità e cinismo encomiabili. Non c’era ragazza che dopo una decina di lezioni su Mallarmé non decidesse di lasciare il fidanzato per abbandonarsi a un’allegra promiscuità sessuale (anche di questo, caro Maestro, ti ringraziamo).
Un giorno mi telefona per dirmi che l’indomani dovrò sostituirlo. Gli chiedo in che senso. Irritato, mi spiega che ha una visita oculistica (per un professore gli occhi sono importanti quasi quanto la voce e le mani, e i suoi erano vulnerabili e feroci come quelli di un Grizzly). Mi spiega che non ha potuto avvertire gli studenti. È troppo indietro con il programma per concedersi un’assenza. Non devo preoccuparmi: è una lezione su Le peintre de la vie moderne di Baudelaire, argomento che da mesi sviscero nella mia tesi di dottorato. Devo essere limpido, didascalico; proibirmi le digressioni; ma soprattutto tenere a mente che gli studenti sono come i cavalli: capiscono poco di qualsiasi cosa se non della capacità del fantino di dominarli. Le mie proteste, colorite da commenti spudoratamente autodenigratori, non sortiscono effetto se non quello di fomentare la sua irritazione. Dopo aver attaccato, mi getto sul mio Baudelaire, tentando di trovare qualcosa di interessante da dire.
La notte fu animata da incubi di pubblica gogna. Sebbene la lezione fosse a mezzogiorno (il mio Maestro era solito esibirsi in orari baronali), alle sette ero già in facoltà, un caffè in mano, la scrivania ingombra di libri aperti.
Avrò avuto al massimo venticinque anni. Alcuni degli studenti a cui stavo per distillare il mio sapere incerto erano stati miei compagni di corso. L’idea di leggere nel mio francese scolastico la prosa di Baudelaire era resa imbarazzante dalla presenza di un paio di ragazzi di Nantes. Del resto, parlare di fronte a una platea avvezza alle lezioni del mio Maestro era come palleggiare a centrocampo in un San Paolo gremito subito dopo la famosa performance di Diego Armando Maradona.
La voce con cui spiegai agli studenti che quel giorno avrei sostituito il mio Maestro andò subito in pezzi, e con essa l’autorevolezza vagheggiata e i sogni di gloria. Dopo una trentina di minuti di dotti farfugliamenti baudelairiani, avendo esaurito gli argomenti, battei in ritirata.
È curioso il modo in cui una lezione così poco memorabile sia rimasta scolpita nella memoria. Ancora oggi, che ho imparato a sopperire con il mestiere, quella mezz’ora di balbettii al cospetto di un pubblico perplesso e annoiato rappresenta un monito permanente, un invito alla cautela, alla circospezione, all’invisibilità.
Per questo, quando qualcuno mi chiama “professore” mi guardo intorno in cerca di un individuo idoneo alla qualifica. E non parlo degli intimi, che mi chiamano “professore” per sfottermi, e neppure degli studenti, dei bidelli o del personale amministrativo che non saprebbero come altro rivolgersi a me, ma di tutti gli altri. Da cosa dipende una così deleteria, patologica mancanza di autoconsiderazione? Dopotutto si tratta di un titolo che mi sono meritato sul campo (e non alludo solo ai libri scritti, alle ore trascorse in biblioteca, alle lezioni, ai convegni, ma anche e soprattutto ai culi leccati e ai rospi inghiottiti). Cosa c’è di incongruo nella qualifica di “professore”? Il dato anagrafico non c’entra, tanto più che la gerontocrazia accademica mi annovera ancora tra i giovani docenti. Del resto, non ho mai avuto paura di invecchiare. Anzi c’è stato un momento della vita in cui ho seriamente temuto di rimanere giovane. Essere giovane non mi è mai piaciuto, non faceva per me.
E’ che quando qualcuno mi chiama Professore avverto nell’aria un lezzo insopportabile di truffa e ciarlataneria. Mi chiedo subito chi tra me e il mio interlocutore sia il vero raggirato.
Io un Professore? Scherziamo? Sarebbe come darmi del marito o del padre, dell’adulto o del cittadino esemplare. Non sono nessuna di queste cose.
La sindrome dell’impostore
Il mio Maestro non mi perdonò la carriera letteraria. Considerò un oltraggio le ottime vendite del primo romanzo, per non dire delle recensioni, gli attestati, i premi, le interviste, le foto, le comparsate televisive, le traduzioni, le opzioni cinematografiche, le collaborazioni giornalistiche, le mail di anonimi ammiratori e soprattutto i quattrini (quelli proprio non li digerì: e perché avrebbe dovuto?). Si godette le stroncature, fu particolarmente entusiasta di quelle più sarcastiche. Pretese di partecipare, in veste di conferenziere, alla prima presentazione romana del mio libro. Di fronte a una cospicua platea di amici e parenti, enumerò i difetti di un’opera prima pomposa, maldestra e sopravvalutata. Ancora una volta diede spettacolo: smanioso di umiliarmi, finì con l’umiliare se stesso. Allora gliene volli, oggi non più. Solo in seguito avrei capito che parlava in nome della mia coscienza, dando voce al sospetto di non essere scrittore più di quanto fossi professore. La sindrome dell’impostore s’insinuava in me subdola come una malattia cronica.
Noi siamo niente
In uno dei più celebri brani di L’Essere e il nulla, quello dedicato al cameriere del bistrot parigino, Sartre illustra la condizione di un uomo semplice, a suo agio nei panni imposti dalla professione: «Ha il gesto vivace e pronunciato, un po’ troppo preciso, un po’ troppo rapido, viene verso gli avventori con un passo un po’ troppo vivace, si china con troppa premura, la voce, gli occhi, esprimono un interesse un po’ troppo pieno di sollecitudine per il comando del cliente, poi ecco che torna tentando di imitare nell’andatura il rigore inflessibile di una specie di automa, portando il vassoio con una specie di temerarietà da funambolo, in un equilibrio perpetuamente instabile e perpetuamente rotto, che perpetuamente ristabilisce con un movimento leggero del braccio e della mano. Tutta la sua condotta sembra un gioco. Si sforza di concatenare i movimenti come se fossero degli ingranaggi che si comandano l’un l’altro, la mimica e perfino la voce paiono meccanismi; egli assume la prestezza e la rapidità spietata delle cose. Gioca, si diverte». Sartre mette in scena l’impostore lieto e consapevole. Ovvero il cameriere che si comporta da cameriere. Provate a pensare allo sconcerto che ci suscita il causale incontro per strada con un cameriere di un ristorante che frequentiamo abitualmente: è lì, fuori dal perimetro privilegiato in cui decine di volte l’abbiamo visto agire, in abiti borghesi a dir poco incongrui. Dapprima stentiamo a riconoscerlo, poi ci sentiamo ingannati.
En passant, Sartre rivela che non c’è azione umana aderente all’individuo che la compie. Ciascuno di noi recita. Recita la mamma carezzando il bimbo che si addormenta (eccola scrutarsi da fuori, soddisfatta nel percepirsi madre modello). Recita il professore fumando la pipa, il calciatore masticando la gomma, l’attore inforcando i Ray-Ban. Recita il giudice quando con solennità condanna un uomo alla pena capitale, e persino il condannato a morte strillando la sua innocenza. Recita il martire che si fa esplodere nella moschea e il mendicante inginocchiato sulle scale della chiesa.
E tuttavia non sono molti a soffrire della sindrome dell’impostore. Di norma la gente non se ne cura. Per lo più si è lieti di fingere di essere ciò che non si è. Diffido dei palloni gonfiati che, per chiudere un contenzioso, ti sbattono in faccia qualifiche o competenze: “Io sono un avvocato”. “Io faccio televisione da trent’anni”. “L’enologia è la mia vita”. Diffido di chiunque stia bene nei propri panni. La disinvoltura è la condizione climatica in cui germoglia la pianta dell’impostura.
Mi chiamo nessuno
Non sorprende lo straordinario numero di impostori messi in scena dalla letteratura (la letteratura è un ricettacolo di bastardi e lestofanti, peggio di un carcere di massima sicurezza). Più sorprendente forse è che tali personaggi siano spinti all’impostura da moventi così diversi, spesso palesemente antitetici. Per Ulisse l’impostura è il solo modo di risolvere i problemi: dopo aver violato le mura di Troia con un raggiro truffaldino, fornisce false generalità sia a Polifemo che ai Proci. Lui è il “nessuno” per antonomasia (millenni prima che Sartre scrivesse L’essere e il nulla). Le motivazioni che spingono Frate Cipolla e Tartuffe all’impostura sono altrettanto disoneste, ma di certe meno nobili. Cyrano è impostore per amore, Valmont per lussuria, il conte di Montecristo per vendetta, Gatsby per rivalsa, Madame Verdurin per snobismo, Mattia Pascal è smanioso di libertà e così via a seguire. I personaggi letterari che rifiutano la maschera dell’impostura di solito fanno una brutta fine: per tutti valga l’esempio di Mersault, lo straniero di Camus.
Che l’impostura non sia una condizione ineludibile? Di più: un’indispensabile risorsa sociale. Denunciando una patologica mancanza di autostima, l’impostore è colui che vuole migliorarsi, che non si contenta; scommette su un futuro implausibile ma eccitante; coltiva il desiderio che le cose si aggiustino, le speranze si rinnovino, i sogni si realizzino, anche a costo di essere smascherato.