I banner tremano
Il dibattito più attuale e allarmato sui modelli di business dei siti web è diventato quello sulla crisi del "display advertising"
Uno dei temi di maggiore attualità, tra chi si segue le vicissitudini e le innovazioni nel campo sia dell’informazione che dei contenuti editoriali in genere su internet, è l’incertezza dei modelli di business basati sulla pubblicità e in particolare su quello che si chiama “display advertising” (ovvero fatto di elementi che compaiono sulle pagine di un sito, come i banner o i video): e che sostiene la quasi totalità dei siti di news e informazione, tra gli altri (anche il Post, per esempio). Ma dopo essere stato considerato l’unico meccanismo di ricavi economici solido e universale per molti anni (rispetto ad altri modelli dall’efficacia più rara e limitata, primi tra tutti quelli basati sui contenuti a pagamento per abbonati), il sistema dei contenuti gratuiti finanziato dalla pubblicità sta mostrando da oltre un anno nuove fragilità, che hanno alimentato un dibattito oggi assai vivace.
Ne stanno scrivendo ormai non solo i siti di tecnologia ma anche quelli più generalisti: nei giorni scorsi per esempio il Guardian (o il New York Times), che si è concentrato su due aspetti che stanno diventando controproducenti e malvisti dagli utenti (un altro problema di cui si parla molto è l’abbassamento dei guadagni derivato dall’invadenza sempre maggiore di grandi concessionarie oligopolistiche della pubblicità, come Google e Facebook, che impongono ricavi sempre più esigui): sono la lentezza di caricamento delle pagine gravate di molti elementi pubblicitari “esterni” al sito, e l’invasività di cookies e introduzioni nella privacy degli utenti da parte degli inserzionisti o dei sistemi che gestiscono le inserzioni. John Naughton, l’autore dell’articolo, ha calcolato che caricando una pagina del sito del Daily Mail ben 31 “enti” diversi (tra cui Google, Amazon, Facebook, Pinterest, Doubleclick) raccolgono informazioni da quella visita. E ha riflettuto sul prezzo che gli utenti sono disposti a pagare per beneficiare gratis del lavoro di chi produce i siti di news e i loro articoli.
Noi umani siamo creature testarde. Pare che disprezziamo e detestiamo i banner pubblicitari e che faremmo qualunque cosa per eliminarli. Per alcuni versi, abbiamo delle ragioni: a parte il fatto che tutto il business intorno alle pubblicità implica una intensa sorveglianza sui nostri comportamenti in rete, c’è anche il fatto che caricare banner e simili in una pagina è come versare della melassa in un cronografo meccanico. Stefan Manzer, uno sviluppatore di Mozilla, ha calcolato che il contenuto effettivo di una pagina di un noto sito web aveva una dimensione di 8kB, ma che la pubblicità aggiunta sulla pagina arrivava a 6 mega. Un altro programmatore ha fatto uno studio dettagliato sulla stessa pagina verificando che aveva bisogno di 30 secondi per caricarsi completamente.
Il nodo del peso della pubblicità – in termini di invasione della privacy e tempo di caricamento delle pagine – sta tra l’altro arrivando a un pettine decisivo che allarma molto le concessionarie e i business che se ne occupano: le nuove versioni di alcuni browser – tra cui soprattutto Safari di Apple – sono intenzionate a offrire agli utenti dei servizi propri di “adblock”, i sistemi già abbastanza diffusi che permettono agli utenti di non caricare i contenuti pubblicitari nelle pagine che visitano (e questo potrebbe gravare soprattutto sul mobile, là dove i siti stanno cercando da tempo di aumentare le monetizzazioni della quota di utenti sempre più grande che ci si sta spostando). E intanto ci sono le riflessioni di alcuni siti che non sono convinti che consegnare la gestione dei contenuti pubblicitari e di tutti i dati associati a Google o Facebook sia una cosa saggia: ma sono molto isolati e controcorrente, perché la crisi generale dei ricavi dell’informazione in questi anni ha fatto sì che i giornali e i siti di news si consegnassero disperati a qualunque possibilità di rimpinguare i poveri guadagni.
Alla base di tutto, spiega ancora il Guardian, c’è una contraddizione che pare radicarsi sempre di più: l’abitudine dei lettori a godere di contenuti gratuiti senza disporsi a nessun sacrificio che consenta l’esistenza di quei contenuti gratuiti.
Il paradosso è questo: vogliamo trovare cose su internet, ma siamo sempre stati patologicamente riluttanti a pagarle. E lo siamo ancora. Da questa riluttanza è nato il business della pubblicità “targettizzata” che in questo momento sostiene il web. Ma da questo (e da Edward Snowden) è venuta una nuova consapevolezza di quello che accade nei nostri browser e una reazione nella forma di programmi che bloccano la pubblicità. Ma se la maggioranza degli utenti di internet finisce con l’usare questi programmi, allora quel business indispensabile comincerà a svanire. E dopo?
Non tanto bizzarramente, è un discorso simile a quello che si fa da molti anni sul giornalismo e sull’informazione in generale: se nessuno paga per leggere i giornali, chi farà i giornali? Eppure finora è sembrato – per via del sistema della pubblicità online – che (al pari di quello che è accaduto con la musica) una selezione naturale, qualche riduzione di qualità e dinamiche più accessibili di distribuzione dei contenuti permettessero la sopravvivenza di alcuni equilibri. Ma se i ricavi della pubblicità “display”, invece di crescere sempre di più come ci si aspettava solo pochi anni fa, entrano in crisi e non trovano il modo di innovare e adattarsi alle richieste – legittime o eccessive che siano –degli utenti (e innovare lo hanno fatto pochissimo, se non zero, dalla nascita di internet), la ricerca di “nuovi modelli di business” non diventa più una necessità accessoria, ma prioritaria.