Che succede alle borse?

C'è stata la peggiore settimana negli ultimi quattro anni per i mercati di tutto il mondo, e oggi va ancora peggio: principalmente è colpa della situazione economica in Cina

(AP Photo/Shizuo Kambayashi)
(AP Photo/Shizuo Kambayashi)

Aggiornamento del 24 agosto – Gli indici delle Borse dei principali paesi europei lunedì mattina hanno aperto in forte calo. Tutti i principali indici europei stanno perdendo più del 5 per cento, Milano sta perdendo il 6 per cento. La Borsa di Shanghai ha perso l’8,5 per cento nelle contrattazioni di lunedì: con quest’ultimo calo si calcola che l’indice principale abbia perso tutto ciò che ha guadagnato nel corso del 2015. Anche in Giappone la perdita è stata molto forte, quasi del 6 per cento. Il prezzo del petrolio è sceso sotto i 45 dollari al barile.

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Venerdì sera le principali borse di tutto il mondo hanno chiuso in perdita dopo una settimana complessivamente molto difficile. Le borse sono calate in tutta Europa, in Asia e negli Stati Uniti, dove i due principali indici di borsa sono scesi di più del tre per cento. È da diverse settimane che le borse mondiali continuano ad andare male: la situazione preoccupa in particolare gli Stati Uniti, dove gli indici erano costantemente in crescita da sei anni. La domanda che ora si fanno molti analisti è se queste perdite saranno recuperate, se resteranno confinate al mondo della finanza, e ancora se la ripresa dopo la crisi economica è destinata ad essere molto più complicata del previsto.

I cali delle ultime settimane sono stati causati principalmente dalla situazione in Cina, un paese che si è trasformato da grande “motore” dell’economia mondiale a principale fonte di preoccupazione per i mercati di tutto il mondo. È da tempo che l’economia del paese ha smesso di crescere al ritmo a cui eravamo abituati fino a pochi anni fa, e ulteriori problemi si sono accumulati negli ultimi mesi. L’analista finanziario Mario Seminerio ha spiegato così la situazione in un articolo sul Fatto Quotidiano:

Le autorità cinesi hanno insufflato la bolla del mercato azionario, con “inviti” neppure troppo velati ai risparmiatori ad investire con serenità e fiducia, una sorta di “garanzia pubblica” più esplicita che implicita. L’ingresso in massa dei piccoli risparmiatori nel mercato azionario e la progressiva apertura ai grandi investitori internazionali attraverso l’interconnessione col mercato di Hong Kong avevano come duplice obiettivo quello di internazionalizzare il mercato cinese dei capitali ed agevolare il rafforzamento patrimoniale delle imprese cinesi, dirottando verso di esse il risparmio nazionale.

In pratica, si tratta del classico meccanismo delle “bolle” finanziarie: gli investitori di tutto il mondo, attirati dai rendimenti crescenti e dall’atteggiamento del governo cinese, hanno iniziato a indebitarsi per investire sempre di più, spingendo i rendimenti ancora più in alto. È un meccanismo abbastanza comune in questi scenari, ma aggravato dal fatto che il mercato dei capitali in Cina è ancora abbastanza primitivo, sia in termini di regole che di pura preparazione in materia economica di investitori e operatori. Negli ultimi mesi è divenuto sempre più evidente che i prezzi delle azioni erano saliti al punto da non avere più alcun legame con l’economia reale. Così hanno cominciato a scendere: e chi aveva preso in prestito soldi per investire, si è trovato scoperto. Molti investitori hanno dovuto vendere in tutta fretta quello che avevano comprato per far fronte ai buchi, causando un’ulteriore diminuzione “a catena” dei prezzi.

Per cercare di reagire, il governo cinese ha intrapreso una serie di azioni tra cui ad esempio cercare di “congelare” il mercato vietando di vendere le proprie azioni. Queste misure, però, non si sono rivelate particolarmente efficaci.  Di conseguenza, il governo cinese ha deciso di compiere una misura ancora più drastica: ha iniziato a immettere nuova moneta “fresca” nel mercato e ha svalutato lo yuan, la sua moneta nazionale. Di solito, queste mosse rendono più economico prestare denaro e quindi tendono a ridare fiducia agli investitori. Inoltre, svalutando la moneta, si rendono più competitive le esportazioni: il governo cinese spera quindi di aumentare anche il giro delle esportazioni, di recente diminuite.

Anche queste misure, però, per il momento non sembrano sufficienti. La svalutazione dello yuan ha causato altre svalutazioni di diverse monete nazionali, compiute da paesi asiatici che non vogliono che le loro esportazioni perdano competitività rispetto a quelle cinesi. Molti analisti, ha scritto il New York Times, si aspettano che ora la banca centrale cinese inizi ad intraprendere azioni più aggressive: in altre parole, si aspettano che immetta nel mercato molti più soldi, svalutando ulteriormente la moneta. Svalutare, però, anche dei lati negativi: se una moneta vale troppo poco, gli investitori preferiranno venderla per comprare monete migliori, privando così il paese di liquidità e investimenti. Il governo cinese, quindi, si trova in una situazione difficile, nella quale deve soppesare attentamente rischi e possibili soluzioni.

La situazione cinese e quella delle borse mondiali si intreccia con quella di altri due eventi degli ultimi mesi. Da tempo la banca centrale americana (FED) ha annunciato di voler ridurre in maniera crescente il piano di acquisti straordinario iniziato dopo la crisi del 2008. Questa costante iniezione di dollari nel mercato ha contribuito a spingere verso l’alto la crescita economica degli Stati Uniti e i mercati di tutto il mondo (tra cui quelli cinesi: quando in giro ci sono molti soldi si cerca qualsiasi opportunità per investirli). Nei mesi scorsi sono bastati gli annunci da parte della FED per spingere moltissimi investitori a ritirare i loro capitali dai paesi emergenti e la fine effettiva del programma potrebbe avere conseguenze anche più serie. Il mese prossimo la FED aveva in programma di compiere un passo importante su questa strada, alzando per la prima volta dopo nove anni il tasso di interesse, ma con le difficoltà che hanno interessato i mercati in questi giorni la decisione rischia di essere rimandata.

L’altra questione di questi giorni è che l’economia dell’Europa, e quella dell’area euro in particolare, non sembrano propriamente in ripresa. Gli ultimi dati sulla crescita del PIL pubblicati la scorsa settimana si sono rivelati peggiori del previsto. Nel secondo trimestre del 2015 l’area euro è cresciuta dello 0,3 per cento, invece dello 0,4 stimato in precedenza. La Francia è rimasta in stagnazione e l’Italia è cresciuta di appena lo 0,2 per cento contro lo 0,3 stimato. Cosa particolarmente grave, tutto questo avviene in una situazione che – almeno per l’Europa – dovrebbe essere particolarmente promettente: l’abbassamento del prezzo del petrolio, il programma di acquisti di titoli di stato della Banca Centrale Europea (un programma più ridotto, ma simile a quello della FED) e il deprezzamento dell’euro. Come ha detto Alessandra Migliaccio, capo dell’ufficio di Roma di Bloomberg News, «l’economia europea si trova sotto steroidi, eppure non riesce a crescere più dello zero virgola».