Un ragazzino molto tirchio
Il primo capitolo del libro autobiografico di Carlo Gabardini, "Fossi in te io insisterei", racconta un gesto di eroismo in pizzeria
Carlo Gabardini, attore e autore comico (famoso soprattutto per la parte di Olmo nella sitcom televisiva Camera Cafè), ha pubblicato prima dell’estate il suo primo libro, Fossi in te io insisterei (Mondadori): che è un racconto di sé e della sua vita finora attraverso una lettera indirizzata a suo padre, racconto di cui fa parte anche la storia della propria identità sessuale che Gabardini aveva raccontato in un popolare articolo scritto nel 2013 e in alcuni interventi successivi. Il primo capitolo del libro introduce i personaggi della famiglia e una delle vergogne dell’autore: la sua tirchieria infantile.
Ciao papà,
non so se ti spedirò mai questa lettera, ma intanto la scrivo. Ti devo dire delle cose perché qua la vita si fa complessa.
Ed è sempre più difficile capire, restare lucidi, trovare un senso, interrogarsi sulla felicità. Poi ti devo dire delle cose perché tu mi hai sempre spiegato il mondo e da quando non ci sei è il vuoto a ogni dubbio. E io sono strapieno di dubbi. Su tutto, costantemente, e più ci penso più i dubbi aumentano e rischiano di lasciarmi immobile nel panico davanti a uno scaffale di supermercato, incapace di decidermi fra pasta lunga o pasta corta. O non sarà meglio il riso?
Ormai non sono più in grado di scegliere nulla, ma proprio nulla; pensa che fra acqua frizzante o naturale, al culmine della discussione che nasce nella mia stupida testolina, solitamente, preso dall’agitazione, le ordino entrambe e poi le mischio nel bicchiere. Chi è al tavolo con me dice: «fai la ferrarelle», io annuisco per brevità, ma in realtà non è vero, è semplicemente che io non scelgo. Ecco: prendere tutto e poi conviverci cercando una sintesi. Però non so se questo sia un atteggiamento sano. Anche perché così diventa tutto molto più faticoso.
Prenderle entrambe per mischiarle vale per quando sono fuori, visto che a casa bevo l’acqua del rubinetto, come m’hai insegnato. Ma cosa si ordina al ristorante non hai fatto a tempo a spiegarmelo, oppure non ti ho ascoltato a sufficienza.
Noi si andava pochissimo al ristorante, forse perché con cinque figli alla fine ti sarebbe sempre toccato pagare per sette, anche se non credo fosse questo il motivo. È che a te non piaceva tanto uscire: nel poco tempo in cui non lavoravi amavi stare con noi, protetto dalle mura domestiche, lasciando il mondo e le preoccupazioni altrove per dedicarti alla tua famiglia e tormentarci di solletico. Poi, sì, forse non ci portavi fuori perché sapevi bene che chi avrebbe sofferto nel leggere la colonna di destra del menù, quella coi prezzi, sarebbe stata la mamma. Risparmiava giorno e notte per fare la spesa per sette persone con una regola ferrea che oggi è stata aggiornata in euro: «non compro formaggio che costi più di 10.000 lire al chilo!». In uno dei giorni finali in cui ci raggruppasti tutti ricordo bene che dicesti: «Se ci sono ancora dei soldi sul conto, dovete ringraziare vostra madre».
Ricordo un compleanno della mamma in cui ci portasti in un lussuoso ristorante, arrivarono sei giganteschi menù con la copertina in pelle nera, mentre alla mamma venne consegnato un menù rosso. Io chiesi che venisse portato anche a me il menù rosso, perché mi sembrava molto più bello e sospettavo che fosse pure più buono. Il cameriere guardava te per avere il consenso del pater familias, che tu non gli accordasti per poi spiegarmi che avevi fatto portare alla mamma un menù senza scritti i prezzi, di modo che finalmente lei potesse per una volta ordinare ciò che preferiva e non ciò che conveniva alle nostre economie. Per un attimo pensai che questo fosse il più bel gesto d’amore di sempre. Per un attimo. Poi pretesi quello stesso amore anche per me.
«Vabbè papà, ma anche io voglio poter scegliere liberamente.»
«Tu scegli liberamente quello che vuoi, ma dai un occhio ai prezzi, ché è meglio che ti prepari alla vita.»
Avevo 8 anni.
«Cos’è il filetto alla stro-go-nof-f?» storpiai certamente. «Una cosa che non ti piace. E senza dubbio la più cara del menù!»
Cosa ne sai mamma, tu hai quello rosso!»
«Ho il menù rosso ma non sono mica stupida. Non c’è bisogno di avere un menù nero per sapere che in un posto così un filettino costa come cinque chili di formaggio, se va bene.»
Mangiai cinque chili di formaggio sotto forma di filettone, perché intervenisti tu dicendo che non volevi che si parlasse di soldi, non ora, non a tavola, non il giorno del compleanno della mamma.
Io da ragazzino ero davvero tirchio, risparmiavo su tutto, mettevo da parte ogni singola moneta per chissà quali progetti futuri. Ero molto interessato ai soldi.
Forse questa non la sai tuttora, ma io da bimbetto andavo spesso al bar e prendevo ogni volta dieci-quindici schedine del totocalcio annunciando al tabaccaio che le avrei compilate a casa con l’aiuto del mio papà. In realtà, a me importava la parte centrale della schedina, che era bianca da uno dei due fronti. Quando avevo incamerato un centinaio di schedine, nella solitudine della mia cameretta tagliavo e ingraffettavo assieme questi foglietti con un lato bianco, fabbricandomi un piccolo bloc-notes sbilenco ma a costo zero. Poi, un giorno che telefonasti a casa per avvisare che tornavi prima del solito e presi io la chiamata, mi venne l’idea per monetizzare il mio progetto.
«Papà, mi serve un bloc-notes, quando torni a casa mi puoi dare 300 lire? È per la scuola.»
«Certo. Son lì fra tre quarti d’ora. Dillo tu alla mamma.»
Mi sentivo un genio del male e avevo la sensazione che presto sarei diventato miliardario, perché avrei aperto un fiorente mercato di bloc-notes casalinghi da vendere a 200 lire ai miei compagni che poi si sarebbero rifatti sui propri genitori, incassando un piccolo margine anche loro. Era un piano perfetto.
Quando arrivasti a casa non con le mie 300 lire ma con ben cinque mini bloc-notes a quadretti con copertine multicolori che avevi preso dall’armadio della cancelleria del tuo studio, li accettai con la delusione nel cuore e la sconfitta ben visibile in volto. Ora ne sai il motivo.
«Sono cinque: se non ti servono tutti, dividili con i tuoi fratelli.» Cinque bloc-notes di 60 foglietti l’uno, perfettamente sigillati assieme nel cellophane. Non ci crederai, ma ero così tirchio e accumulatore che quei cinque blocchetti ce li ho ancora: intonsi, incellophanati, riposti con cura in una scatola da scarpe che porta la dicitura cancelleria nuova o usata pochissimo. Tanto, io prendevo appunti sul retro delle schedine del totocalcio. Ne ho trafugate in tale quantità che ne ho da far blocchetti finché campo.
Per fortuna che son stato previdente, perché la schedina di oggi non ha più nessuna parte bianca. La prima volta che scoprii che avevano cambiato grafica, pensai che qualcuno alla sisal m’avesse beccato: «Oh, guarda che a milano c’è uno che fa blocchetti rubandosi le nostre schedine!». Infatti non gioco più al totocalcio, e non sono l’unico, ormai giochiamo tutti al superenalotto.
Tu odiavi i tirchi. I racconti sulle manifestazioni d’avarizia dei tuoi amici erano sempre conditi di disprezzo, talvolta persino di rabbia. Mi ricordavi che l’avarizia è uno dei sette peccati capitali, redarguendomi in continuazione: «Non mi piace per niente questo fatto che sei tirchio. Attento alle spese, oculato, anche risparmiatore, è un conto; ma l’avarizia no, è una bestia che ti mangia dentro e che ti fa vivere male ogni giorno, ogni cosa, ogni istante. I soldi sono fatti per essere spesi. Cosa te ne fai di 100 milioni in banca se ogni volta che devi spendere 100 lire soffri come un cane? Diventa una maledizione».
Più che sgridarmi, mi facevi ragionare, tanto che alla fine del ragionamento, di solito, avevo voglia di sgridarmi da solo.
Quando avevo 9 anni la mia tirchieria era diventata così proverbiale da indurmi a trovare un modo per staccarmi di dosso quest’etichetta. Ci pensai giorno e notte per mesi, sommando mentalmente le cifre dei menù che di rado mi capitavano sott’occhi, e alla fine venni da te per comunicartelo: «Voglio offrire la pizza a tutta la famiglia; stavolta pago io». Cercasti di dissuadermi, dicendo che non ce n’era bisogno e che sarebbe stato tutt’altro che economico e dunque un duro colpo alle mie finanze, ma credo fosse solo per saggiare le mie reali intenzioni e accertarti che questa non fosse una boutade estemporanea dettata dal fastidio di essere additato come tirchio. Volevi esser certo che non me ne sarei pentito, forse ti sentivi anche un po’ responsabile del mio desiderio di riscatto sociale, ma sotto sotto ne eri contento. Non è così, papà? Fatto sta che la nostra conversazione terminò con il tuo: «Pensaci bene prima di dirlo agli altri, perché poi le promesse vanno mantenute, a ogni costo».
La nostra trattativa durò mesi, durante i quali le poche volte che pagavi un conto al ristorante io cercavo di capire se fosse alla mia portata o meno e quanto avrei sofferto se alla cassa ci fossi dovuto andare io. Violentandomi un poco, mi convinsi della validità del mio piano e finalmente incassai il tuo assenso. Durante una cena in casa lo comunicammo agli altri fortunati membri della famiglia in modo solenne. La reazione fu di meraviglioso stupore e moltissima incredulità.
Ora che ci penso, forse quella fu la prima volta che capii, senza capirlo realmente, che «cambiare si può» e che le reazioni al cambiamento hanno in sé una doppia natura: da un lato la soddisfazione e il desiderio di complimentarsi con chi è cambiato, migliorato, diverso; dall’altro un sentimento indicibile che sintetizzerei così: «Il fatto che tu cambi mi mette davanti all’evidenza che anch’io possa cambiare, e questo non mi fa stare affatto bene, anzi, un po’ ti odio, perché io come antidoto alla bruttezza della mia vita mi ripeto ogni giorno che sono il mondo esterno e le contingenze a rendere impossibile qualsiasi mio desiderio di cambiamento, quindi, mostrandoti cambiato, tu distruggi questa finta certezza che mi sono costruito per proteggermi e mi costringi a chiedermi perché non cambi anch’io!».
La pizzeria la scelsi io, con un metodo piuttosto semplice: lì ti portarono il conto più basso che ti avessi mai visto saldare. Da Gino, andammo insieme la mattina di quel sabato, tu per prenotare perché io ero troppo giovane per essere credibile, io per avanzare una richiesta temeraria:
«Per piacere, stasera ai miei fratelli e ai miei genitori puoi portare il menù rosso?»
«Cos’è il menù rosso?»
Gino non sapeva se dovesse rivolgersi a me, suo giovane cliente cicciottello, o a te, il padre avvocato che si stava divertendo un mondo.
Risposi io, innervosito dalla sua ignoranza e felice di sapere una cosa che non sapesse un adulto, e lo feci con la spietata ovvietà dei bimbi: «Il menù rosso è quello senza i prezzi, Gino!».
«Ma noi siamo una pizzeria, non ce li ho i menù senza i prezzi.»
«Ah. E come mai? Forse è per quello che se uno deve offrire da mangiare va in un ristorante più bello. Ma se uno deve offrire la pizza alla sua ragazza, come fa?»
«Facciamo così, Carlo Giuseppe: vengo io al vostro tavolo, senza menù, e vi elenco le pizze che abbiamo. Va bene?»
«Preferivo i menù rossi, ma se proprio non li avete, va bene. Però non dire i prezzi delle pizze!»
«Certo che no.»
«E non ti inventare adesso delle nuove pizze che costano tantissimo.» «Tranquillo.»
«E le pizze più care, magari, tienile per ultime, che speriamo che scelgono prima.»
La sera ero già agitato da appena dopo la merenda e continuavo a cercare di immaginarmi a quanto avrebbe ammontato il conto finale. I miei fratelli mi sembravano coalizzati fra di loro come se avessero riconosciuto in me la vittima sacrificale. Però va anche detto che venni profondamente rispettato quel giorno e credo anche un poco invidiato, almeno dai miei due fratelli maggiori.
Non appena fummo tutti seduti, ci raggiunse Gino. I miei fratelli non lo lasciarono arrivare alla quarta pizza del suo elenco orale ed esclamarono nervosetti: «Ma se ci porti i menù non è più facile?! Così uno legge e sceglie con calma?».
Mentre pensavo «che schifo di piano» fu lo stesso Gino a evitare la capitolazione.
«Li stiamo ristampando e i pochi che ho sono tutti occupati da altri tavoli.»
E bravo Gino l’improvvisatore che, dopo una incredibile performance di memoria e pazienza, riuscì a portarsi in cucina la nostra ordinazione. Durante la quale ricordo che sudai freddo, e il terrore aumentava via via che sentivo pronunciare certi ingredienti, sperando che nessuno li scegliesse: «porcini freschi», «salmone affumicato», «che si può avere anche con la variante della bufala».
L’unica a usarmi la cortesia di tenere a mente che avrei saldato io il conto con i miei risparmi di ragazzino fu la mamma, che scelse una margherita; e secondo me avrebbe volentieri preso una marinara, se non fosse apparso come un gesto smaccatamente risparmioso e troppo schierato dalla mia parte. La marinara ovviamente la presi io, al grido di: «Voglio proprio provarla ’sta marinara! Semplice, ma dev’essere buonissima», nel vano tentativo di farmi dei proseliti.
E poi furono ordinate cinque pizze che mi sembrava contenessero tutti gli ingredienti più cari del mondo, alcuni, anzi parecchi, con l’aggravante della parola «doppia»: «doppia mozzarella», «doppio salamino piccante», «con tantissimo speck». E io soccombevo sotto la preoccupazione. Furono solo la nostra giovane età e la vostra sostanziale astemìa di genitori che almeno evitarono vino e birrette. Però, nessuno dei miei fratelli preferì l’acqua, né gasata né naturale, no, tutti bibite: coca-cola, fanta, coca-cola, coca-cola con doppio ghiaccio. «Io prendo un’acqua; naturale, che gonfia meno.»
«Guarda che la frizzante costa uguale» mi presero in giro i miei fratelli, alcuni a parole, altri commentando la mia scelta solo con lo sguardo.
«Ah sì? Allora la prendo frizzante, Gino. Ma non è per i soldi. È… Per farvi compagnia.»
Vedervi tutti mangiare pensando che in fondo fosse per merito mio, fu una soddisfazione che ancora ricordo.
Poi arrivò il conto: 41.500 lire. Strabuzzai gli occhi, anche se feci di tutto per non darlo a vedere. Mi alzai e, fra le risatine e le pacche di comprensione dei miei fratelli, andai alla cassa come ci si incammina verso il patibolo.
«Ti faccio un po’ di sconto. Dammi 40.000!»
Mai mi sembrò così dolce e salvifica questa tipica espressione degli osti.
Come testimonia il mio libretto di risparmio nominativo numero 0003 della banca di famiglia, di cui tu papà eri il cassiere, in realtà io ci misi solo 20.000 lire, perché intervenisti dicendo che avresti gradito contribuire per metà alla spesa, che sarebbe stato un nostro segreto e che non lo avresti raccontato agli altri; l’importante era il gesto che avevo deciso di fare ed eri molto contento di me.
Ti ho voluto un sacco di bene in quel momento. Temo, soprattutto, per il risparmio che mi stavi concedendo.
Ora penso che evidentemente avevi un enorme potere su di me. Se un ragazzino molto tirchio di 9 anni, pur di mostrarsi migliore di quello che è, sceglie di sua sponte di offrire con i propri risparmi la pizza ad altre sei persone, significa che il giudizio di suo padre lo tiene davvero in conto.
Ti ho scritto di questo per mostrarti che tu mi educavi, mi miglioravi, cambiavi il mio comportamento. E adesso che non ci sei, io come faccio? Come faccio a sapere cosa è giusto e cosa è sbagliato? A chi mi rivolgo? Scusami se rubo le parole del vangelo che tante volte hai cercato di spiegarmi, ma mi viene davvero da urlare: «padre, perché mi hai abbandonato?».