C’è una svolta nella ricerca sulla SLA
E i ricercatori dicono che il merito è almeno in parte dei tantissimi fondi raccolti con l'Ice Bucket Challenge
di Robert Gebelhoff – Washington Post
Soltanto un anno fa di questi tempi Facebook era pieno di video e foto di persone che si gettavano addosso secchiate di acqua fredda, in nome della ricerca scientifica. Il cosiddetto “Ice Bucket Challenge” era la campagna virale del momento: uno sforzo collettivo per sensibilizzare l’opinione pubblica e raccogliere fondi a favore della ricerca sulla sclerosi laterale amiotrofica o SLA, nota anche come morbo di Gehrig. Quel fenomeno fu anche criticato e definito un esempio di “slacktivism”, o “attivismo da clic”: un modo per permettere alle persone di soddisfare il loro narcisismo facendole sentire utili con il minimo sforzo, e senza ottenere particolari risultati. Dopo un anno e 220 milioni di dollari in donazioni fatte soltanto negli Stati Uniti – in Italia sono stati raccolti oltre 2,4 milioni di euro soltanto dall’AISLA; poi ci sono la fondazione Stefano Borgonovo e l’ASLA – gli scienziati della Johns Hopkins University dicono di essere arrivati a una svolta nella ricerca sulla malattia: e dicono che il merito è almeno in parte del denaro e dell’attenzione ottenuta con la campagna.
«Senza quella campagna non saremmo stati in grado di concludere i nostri studi così velocemente», ha detto Philip Wong, il professore che ha guidato il team di ricercatori. «I fondi dell’Ice Bucket Challenge sono solo una parte dei nostri finanziamenti, ma hanno contribuito a rendere il nostro lavoro più semplice». Wong e il suo team hanno studiato la SLA per dieci anni, ma come ha detto anche un altro scienziato, Jonathan Ling, sono stati i milioni di dollari raccolti con l’Ice Bucket Challenge a dare ai ricercatori la stabilità finanziaria per realizzare una serie di esperimenti molto dispendiosi ma molto promettenti, ad alto rischio e ad alto potenziale. «Il denaro è arrivato nel momento critico, quello in cui ci serviva», ha detto Wong.
La svolta nella ricerca sulla SLA ha risolto il mistero sul ruolo di una proteina che i ricercatori chiamano “TDP-43”. Circa dieci anni fa i ricercatori scoprirono che nei malati di SLA si riscontra spesso la presenza “grumi” di questa proteina fuori dal nucleo delle loro cellule cerebrali, ma non capivano se questa fosse una causa o un effetto della malattia. In un nuovo studio sul ruolo di questa proteina nelle cellule dei topi, pubblicato la settimana scorsa sulla rivista Science, i ricercatori della Johns Hopkins University sono riusciti a ricostruire come la proteina TDP-43 – che in teoria ha il compito di decodificare il DNA – nei malati si scompone e diventa “appiccicosa”. Non riesce quindi a leggere il DNA e questo provoca la morte della cellula nel giro di pochi giorni.
Quando i ricercatori però hanno iniettato nei neuroni una proteina artificiale, sintetizzata in laboratorio perché simulasse il comportamento sano della TDP-43, le cellule si riattivavano e tornavano alle loro normali funzioni. Questo ha generato molto interesse, perché a questo punto si ipotizza che un trattamento simile possa essere utilizzato per rallentare se non addirittura fermare il decorso della malattia. È un grande passo per i malati di SLA in tutto il mondo, che oggi non hanno cure o farmaci per opporsi a una patologia che di solito uccide le persone dai due ai cinque anni successivi alla prima diagnosi.
Wong ha detto che ora bisognerà condurre altri esperimenti per vedere se questa proteina artificiale può essere usata per curare un intero topo – o un intero organismo – invece che una singola cellula. Se questi test dovessero andar bene, a quel punto inizierebbero gli esperimenti sugli esseri umani. Grazie alla grandissima quantità di denaro raccolto dai ricercatori, questi test sono già finanziati: dal punto di vista economico gli studi sono già coperti.
La SLA è una malattia relativamente rara. Negli Stati Uniti ogni anno muoiono circa 7.000 persone per la SLA; in Italia si stima che ci siano almeno 3.500 malati e 1.000 nuovi casi ogni anno. Anche per questo l’anno scorso fu sorprendente il sostegno alla ricerca di centinaia di migliaia di persone comuni, politici e celebrità varie. Negli Stati Uniti il denaro raccolto dalle associazioni per la ricerca è aumentato in un solo anno di 41 volte. Alcuni criticarono la campagna sostenendo che un’attenzione così vasta per una malattia così rara avrebbe “cannibalizzato” i fondi per la ricerca delle altre malattie, anche quelle che riguardano molte più persone. Il dottor Wong ha detto però che la ricerca non funziona così: non c’è una torta di cui bisogna spartirsi le fette.
«Innanzitutto le associazioni che sostengono la ricerca su altre malattie possono usare strategie simili per sensibilizzare l’opinione pubblica e ottenere sostegno economico. L’Ice Bucket Challenge ha aiutato anche altre realtà a promuovere la loro causa. Ha fatto più bene che male». I ricercatori credono inoltre che il loro lavoro su queste proteine possa avere un impatto più grande rispetto alla sola lotta alla SLA. Wong ha detto che altre malattie – come il morbo di Alzheimer, la distrofia muscolare e la miosite da corpi inclusi – potrebbero beneficiare di una cura come quella che loro stanno studiando. «La lezione che stiamo imparando può essere applicata ad altre malattie. C’è un numero di persone molto più alto che potrà beneficiarne».