Le opere di Damián Ortega a Milano
Fino all'8 novembre all'Hangar Bicocca sono esposte le installazioni di uno dei più interessanti artisti contemporanei
di Mercedes Auteri
A Milano, all’Hangar Bicocca, è aperta fino all’8 novembre la prima mostra personale in Italia dedicata al messicano Damián Ortega, considerato uno dei più interessanti artisti contemporanei. Ortega ha già esposto le sue opere nelle gallerie e nei musei più importanti del mondo; la sua opera più famosa – che si può vedere all’Hangar – si chiama “Cosmic Thing”, è del 2002 ed è un maggiolino smontato pezzo per pezzo. Il maggiolino è, tra le altre cose, l’auto simbolo del boom economico, prima in Germania e poi in Messico: lo stesso Ortega ne ha uno. Nell’opera ogni singolo componente dell’auto è appeso, galleggiante, esposto ricreando lo schema tridimensionale dell’automobile – come se fosse esplosa ma in maniera armonica, equilibrata, una scultura classica con materiali meccanici. Ortega interviene sugli oggetti smontandoli ma senza distruggerli: le sue installazioni non sono mai disordinate, anche se il titolo della mostra all’Hangar è ironicamente “Casino” (e c’è ironia in molte delle sue opere).
Ortega è nato a Città del Messico nel 1967. Negli ultimi anni è diventato piuttosto famoso tra appassionati e addetti ai lavori – ha esposto le sue opere in tutti i posti che contano, da Londra a Basilea a Parigi a Venezia a Berlino e New York, tra gli altri – ma è considerato un artista rimasto abbastanza indifferente al successo e che fa solo quello che veramente gli piace. Viene da una famiglia di artisti. Suo padre Hector – insieme al regista Alfonso Arau – creò un supereroe dei fumetti che poi divenne anche un film, una specie di risposta locale a Superman: “L’Aquila Scalza”, un vendicatore anonimo con la maschera dell’aquila, simbolo del Messico, ma povero al punto da non potere indossare scarpe. Hector Ortega (che nel corso della sua carriera mise in scena anche “Morte accidentale di un anarchico” di Dario Fo) era amico di Mario Orozco Rivera, anche lui artista e padre di Gabriel Orozco, amico d’infanzia di Damián Ortega e oggi anche lui importante artista messicano. Per anni le scelte concettuali delle opere d’arte di Damián Ortega e Gabriel Orozco, che sono quasi coetanei, sono state accostate e paragonate: per esempio i maggiolini Volkswagen di Ortega con le installazioni con le Citroen di Orozco.
Damián Ortega lasciò la scuola a 16 anni e cominciò a lavorare nell’arte alla fine degli anni Ottanta nel suo quartiere a sud di Città del Messico, Tlalpan, con i “Laboratori del Venerdì” promossi dal suo amico Gabriel Orozco insieme con Gabriel Kuri, Abramo Cruzvillegas e il Dr. Lakra (pseudonimo di Jerónimo López Ramírez). Nel 1999, per rompere con il tradizionale circuito delle gallerie, i “Laboratori del Venerdì” decisero di organizzare una mostra in un mercato ortofrutticolo di Città del Messico. Tra le bancarelle di frutta e verdura, Ortega espose alcuni trasformatori elettrici con innesti di jicama, cipolle e chele di granchio. “Volevo mostrare che il futuro dell’ecosistema sta nella biodegradabilità”, disse, anche se all’inizio i messicani non lo apprezzarono. Come ha raccontato lo scrittore Juan Villoro, “le alterazioni della realtà proposte dalla generazione di Kuri, Cruzvillegas, Orozco e Ortega non sono state capite subito. In parte, perché il Messico è in uno stato di installazione permanente. La fantasia popolare trasforma tutti i rifiuti in ornamento. È una città dove vecchie scarpe vengono appese come trofei ai cavi elettrici della città e gli alberi sono decorati con gomma masticata attaccata ai tronchi. Non è sempre facile distinguere le condizioni eccezionali in questo programma di installazione costante”.
In una delle opere più famose di Ortega, il “Controllore dell’Universo” (2007) – in mostra all’Hangar –strumenti da lavoro sono sospesi in aria e animati da un’energia centrifuga. L’installazione deve il suo titolo al famoso murale di Diego Rivera per il Rockefeller Center di New York, poi censurato per la presenza di Vladimir Lenin tra i protagonisti e ricreato in Messico. Mentre Rivera vedeva però il progresso tecnologico come un passo verso la liberazione della classe operaia, Ortega è più scettico: il titolo dell’opera, sull’uomo capace di controllare l’universo con gli strumenti del lavoro, è ancora una volta ironico – per lui non c’è niente di più incontrollabile dell’universo. “Non mi interessa l’uso eroico dello spazio pubblico, come ha fatto il murale; i miei interventi sembrano piuttosto anonimi, fatti da chiunque, e sono transitori, rimovibili o portatili addirittura” [una sua scultura del 2004, “Obelisco trasportabile”, è alta 6 metri e ha una base smontabile di 60 cm, in fibra di vetro]. “Non mi interessa un intervento magniloquente o megalomane, meglio fare inserzioni virali, alterare i punti focali, come fa l’agopuntura”.
Nelle opere di Ortega c’è un ordine classico che l’allestimento all’Hangar Bicocca di Milano evidenzia particolarmente, quasi in dialogo con la grande scultura di Fausto Melotti che accoglie all’esterno i visitatori dell’Hangar: una simbolica soglia d’ingresso al contemporaneo, all’anti-monumentale e all’astratto poetico.