Il disastro dell’ATR-72, dieci anni fa

Il 6 agosto del 2005 un aereo fece un ammaraggio al largo di Palermo: morirono 16 persone, per un errore evitabilissimo

Il 6 agosto di dieci anni fa il volo Bari-Djerba della compagnia tunisina Tuninter effettuò un ammaraggio al largo di Palermo: meno di un’ora dopo il decollo entrambi i motori si erano spenti. Nella manovra morirono quattordici passeggeri e due membri dell’equipaggio.

Cosa accadde
Il volo charter Tuninter 1153, un ATR-72, la mattina del 6 agosto 2005 volò da Tunisi a Bari per imbarcare 34 passeggeri e riportarli a Djerba. A bordo c’erano in tutto 39 persone. L’ATR-72 è un aereo di fabbricazione francese, molto usato per i voli brevi, che non richiede un’eccessiva manutenzione e non consuma molto carburante. Poco dopo le 14.30 l’aereo decollò da Bari e 49 minuti dopo la partenza si trovava a 600 chilometri di distanza dalla destinazione. A 120 chilometri dalla costa più vicina e a 7 mila metri sul livello del mare, però, il motore di destra smise di funzionare.

Cominciarono le prime operazioni di emergenza: se uno dei motori si spegne è previsto infatti che si debba scendere di quota. L’ATR-72 venne dunque portato a 5 mila metri sul livello del mare. Dopo circa due minuti si spense anche l’altro motore. L’aereo cominciò a precipitare. In quel momento, il solo indizio di malfunzionamento era il segnale di bassa pressione del carburante, cioè il fatto che ai motori arrivava poco carburante. La causa poteva esser meccanica oppure causata da impurità. Venne seguita la procedura di accensione dei motori e venne convocato in cabina l’ingegnere di bordo. L’aeroporto più vicino era quello di Palermo, che diede il via libera all’atterraggio, ma calcolando la velocità di caduta (30 cm per ogni metro di percorso) e la distanza da percorrere prima di arrivare alla costa i piloti decisero per un ammaraggio.

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Con i motori spenti, anche altri strumenti alimentati dai motori iniziarono a non funzionare. A circa 20 miglia nautiche da Palermo il comandante virò in direzione di alcune navi che aveva individuato. Nel frattempo era stato lanciato il segnale di emergenza dalle torri di controllo e ancor prima che l’aereo toccasse il mare i soccorsi erano stati attivati. L’impatto avvenne a 233 chilometri all’ora. Il comandante sopravvisse, come il secondo pilota. L’ingegnere di bordo invece morì insieme ad altre quindici persone. L’aereo si spezzò in tre pezzi, ma le due sezioni più grandi collegate alle ali restarono a galla e funzionarono come zattere per i passeggeri sopravvissuti.

Le indagini
Subito dopo l’impatto, una delle sezioni che non era affondata venne trasportata a Palermo: la scatola nera e il muso si trovavano invece a circa 1.500 metri sotto il livello del mare. Un gruppo di agenti dell’Agenzia nazionale per la sicurezza del volo cominciò le indagini, affiancato dai responsabili della casa produttrice dell’ATR-72.

Senza le registrazioni, ci si basò inizialmente sulle ricostruzioni fatte dall’equipaggio. L’indizio principale era il segnale di bassa pressione del carburante: si cominciò quindi a cercare un difetto nel sistema di distribuzione e una prova che dimostrasse l’interruzione del flusso ai motori. Nel frattempo si decise di seguire una seconda pista: se cioè nel carburante vi fossero delle impurità. L’ultimo rifornimento era stato fatto a Bari, si prelevarono dei campioni dalle autocisterne, vennero rimossi i filtri, ma il risultato dei test fu definitivo: non c’erano state contaminazioni. Anche i condotti del carburante dell’aereo risultarono perfetti: il sistema di alimentazione non aveva avuto problemi.

I responsabili delle indagini cominciarono a chiedersi perché dopo l’impatto le ali avevano continuato a galleggiare: se infatti il carburante immagazzinato era davvero quello che approssimativamente era stato calcolato, le ali avrebbero dovuto affondare, trascinate giù dal peso del carburante. Dopo due settimane di ricerche arrivarono le documentazioni tecniche dalla compagnia aerea tunisina: si scoprì che il giorno prima era stato segnalato su quell’aereo un problema all’indicatore che segnala quanto carburante è rimasto a bordo, e che era stato sostituito. Dalle carte risultava però che l’indicatore non era quello compatibile per quel tipo di aereo: apparteneva all’ATR-42, un modello più piccolo. Dopo tre settimane si ebbe la conferma: sul volo 1153 era stato montato un indicatore sbagliato.

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L’indicatore di carburante raccoglie i dati provenienti dai serbatoi e calcola quanto carburante è presente. Ma le dimensioni dei serbatoi dell’ATR-72 e dell’ATR-42 sono diversi e l’indicatore non è in grado di riconoscere tali differenze. Vennero fatti dei test e il risultato mostrò che installando quel modello di indicatore sull’ATR-72 a serbatoi vuoti veniva segnalata l’esatta quantità di carburante che il comandate aveva letto quando si erano spenti i motori: 1.800 chili. I motori dell’aereo, insomma, si erano fermati perché era finito il carburante.

L’indagine si concluse e venne scritto il rapporto definitivo. Quello che restava da capire era se c’erano stati altri errori che avevano causato l’incidente. Vennero studiate le specifiche dell’aereo, vennero fatte delle simulazioni e venne fuori che il pilota avrebbe avuto la possibilità di atterrare a Palermo in planata se fossero state seguite le procedure previste per creare meno attrito possibile. I due piloti non lo fecero: non erano a conoscenza del problema e avevano puntato tutto sul fatto di poter rimettere in moto i motori.

Il processo
Nove persone affrontarono l’accusa a vario titolo di disastro colposo, omicidio plurimo colposo e lesioni colpose gravissime: tra loro il tecnico che aveva montato l’indicatore, il comandante e il copilota. Il 28 febbraio 2008 si aprì l’udienza preliminare. La sentenza fu emessa il 23 marzo del 2009: il comandante e il copilota furono condannati a 10 anni di carcere. Furono condannati anche il direttore generale della Tuninter, il direttore tecnico, il responsabile del reparto di manutenzione, un meccanico e il responsabile della squadra manutenzioni. In appello le pene furono ridotte e nell’aprile 2013 confermate dalla Cassazione: la pena più pesante è stata quella del pilota del volo Tuninter 1153, condannato a sei anni e 8 mesi.