Cosa succederebbe se
L'ultimo numero dell'Economist cerca di prevedere cosa succederebbe se Hillary Clinton diventasse presidente, se un asteroide si dirigesse verso la Terra o se per tre mesi non piovesse in India
Da 29 anni ogni anno a novembre l’Economist pubblica “The World In”, una raccolta di articoli che prevedono cosa potrebbe succedere a livello economico, politico, tecnologico e sociale nell’anno successivo. Gli articoli, i dati e i grafici di “The World in 2015” sono disponibili online e si può scaricare la app per dispositivi Apple e Android. Nell’agosto 2015 l’Economist ha pubblicato per la prima volta una nuova e diversa serie di articoli: The World If, “il mondo se”. Se The World In offre previsioni e anticipazioni dell’anno che verrà, The World If si spinge oltre, immaginando ipotetici scenari futuri, conseguenti a determinati eventi o situazioni.
Introducing The World if, a new supplement from @TheEconomist that explores the scenarios that could shape the future http://t.co/Etis7nqMrf
— Nick Blunden (@nickblunden) July 30, 2015
Gli articoli di The World If immaginano invece scenari talvolta improbabili e in un futuro non necessariamente di breve termine: si chiedono, tra le altre cose, cosa succederebbe se Hillary Clinton diventasse il primo presidente donna degli Stati Uniti d’America, se la Russia dovesse spezzettarsi o se per un intero giorno Internet smettesse di funzionare in tutto il mondo. L’Economist immagina anche uno scenario in cui un asteroide si dirige verso la Terra, uno in cui le cure per la malaria smettono improvvisamente di funzionare e uno in cui a quelli che dicono bugie cresce davvero il naso (in questo caso la risposta è data dai disegni di Kal, nome d’arte del vignettista Kevin Kallaugher).
Se Hillary Clinton diventasse il nuovo presidente degli Stati Uniti
L’Economist si immagina lo scenario in cui l’8 novembre 2016 Clinton ha vinto le elezioni battendo il Repubblicano Marco Rubio. Sono passati i primi cento giorni della presidenza Clinton, che ha vinto con idee di destra sulla sicurezza nazionale e con idee di sinistra sull’economia. Durante la sua campagna elettorale ha dovuto gestire la crisi dei rifugiati cubani, conseguente alla fine del potere di Fidel Castro e suo fratello. Ha vinto promettendo aumenti salariali alla classe media, ma un Senato diviso a metà tra Repubblicani e Democratici le sta creando non pochi problemi. Ha promesso «un aumento della paga oraria minima federale a 15 dollari, dicendo di voler garantire ad ogni madre che lavora due mesi di permesso pagati dopo una gravidanza o dopo aver adottato un figlio». Difficilmente riuscirà a mantenere la sua promessa e questo le creerà numerosi problemi.
Se un asteroide andasse contro la terra
“2015 PDC” è un asteroide che si pensa abbia un diametro compreso tra i 140 e i 400 metri che nel settembre del 2022 passerà vicino alla Terra. Gli scienziati dicono che non arriverà sulla Terra, ma l’Economist ha immaginato che lo faccia: e succede questo.
È la fine del 2015 e gli scienziati si sono accorti che i loro calcoli erano sbagliati e che l’impatto di 2015 PDC con la Terra avverrà sicuramente. L’asteroide arriverà sulla Terra con una velocità di 11 chilometri al secondo, rilasciando un’energia «pari a quella di centinaia o migliaia di grandi testate nucleari». Non si sa dove avverrà l’impatto. Per distruggere l’asteroide o deviarne la traiettoria si decide di far partire una missione spaziale e mandare nello spazio degli “intercettatori”, che arriverebbero a destinazione nel 2020. L’Economist immagina che gli intercettatori falliscano e anziché essere deviato l’asteroide venga diviso in due parti, una più grande e una più piccola. Quella più piccola si dirige ancora verso la Terra e sembra possa finire contro l’India, che pensa quindi a una testata nucleare da mandare contro l’asteroide per disintegrarla. La Cina però si oppone, sostenendo che l’operazione indiana potrebbe deviare l’asteroide e farlo cadere in Cina. Cina e India iniziano una disputa relativa alle decisioni da prendere e potrebbero iniziare una guerra.
Se Mao Zedong non avesse fondato la Repubblica Popolare Cinese
Nel 1949 Mao vinse la guerra civile contro l’esercito guidato da Chiang Kai-shek e fondò la Repubblica Popolare Cinese, che esiste ancora oggi: Chiang e il suo esercito furono costretti a rifugiarsi sull’isola di Taiwan. Negli ultimi decenni il paese che è cresciuto di più tra Taiwan e la Cina è stato Taiwan. L’Economist si chiede quindi come sarebbe la Cina oggi se al posto di Mao ci fosse stato Chiang?
«Chiang sarebbe comunque stato alla guida di uno stato corrotto, con un governo autocratico e con una violenta polizia segreta», scrive l’Economist, e il suo partito avrebbe affrontato l’opposizione degli abitanti delle zone rurali, fedeli a Mao e alle sue idee. Sotto la guida di Chiang la Cina non avrebbe però dovuto aspettare trent’anni per diventare un’economia globale. Sarebbe cambiata anche la storia geopolitica di tutta l’Asia: Chiang, per esempio, non avrebbe sostenuto l’invasione nordcoreana della Corea del Sud, come invece fece Mao. Il rischio, considerando il forte nazionalismo di Chiang, sarebbe stato comunque un’altra guerra: questa volta contro il Giappone, rivale storico della Cina. Anche la Guerra fredda sarebbe andata diversamente con una vittoria di Chiang: probabilmente la Cina si sarebbe alleata con gli Stati Uniti e ci sarebbero stati scontri molti più violenti con l’Unione Sovietica.
Se succedesse alla Russia quello che è successo all’URSS
L’articolo dedicato alla Russia ipotizza il futuro in funzione del presente e scrive che la Russia è uno stato composto da 200 nazionalità e che si espande su 11 fusi orari diversi. È più piccola dell’Unione Sovietica, ma potrebbe fare la stessa fine.
Le spinte indipendentiste in Russia sono molte e sono state solo parzialmente frenate dalla decisione di Boris Yeltsin – presidente della Russia dal 1991 al 1999 – di rendere la Russia una federazione di stati. Putin, il suo successore, ha però sviluppato una nazione più centralizzata. I primi problemi per la Russia, scrive l’Economist, potrebbero arrivare dalla Cecenia e poi da altre zone del Caucaso, come per esempio l’Ossezia. Altre spinte indipendentiste potrebbero arrivare dalla Repubblica del Tatarstan, una repubblica di quasi quattro milioni di abitanti a metà strada tra Mosca e il Kazakistan. Anche gli Urali e la Siberia potrebbero cercare di diventare indipendenti dividendo la Russia in molte nazioni completamente autonome. L’Economist scrive che la Russia di Putin «è molto più fragile di quanto sembri», e ancora più fragile potrebbe essere una Russia senza Putin. Nel frattempo «lo spettro della dissoluzione minaccia già la Russia», anche se «politici e commentatori hanno paura a parlarne in pubblico».
Se un paese della NATO fosse attaccato
L’Economist immagina cosa succederebbe se un paese membro della NATO – un’organizzazione internazionale per la collaborazione nella reciproca difesa – dovesse essere attaccato da un altro paese.
L’Economist ipotizza che quest’altro paese possa essere la Russia e che decida di interessarsi all’Estonia e alla Lettonia: due stati appartenenti alla NATO con cui la Russia confina e in cui abitano molti russi. La Russia inizierebbe fomentando i filo-russi che abitano in Estonia e Lettonia, sfruttando la propaganda per far leva sul loro desiderio di ribellarsi ai rispettivi governi. Poco dopo Putin deciderebbe di mobilitare le sue truppe al confine con i due stati (un po’ come fece con l’Ucraina): le truppe potrebbero superare il confine e iniziare a occupare Estonia e Lettonia. I due stati invocherebbero l’Articolo 5 del Trattato del Nord Atlantico, quello secondo cui ogni stato membro deve difendere un altro stato NATO, se attaccato. A quel punto la Russia minaccerebbe l’uso di testate nucleari e di conseguenza, il Consiglio della NATO non autorizzerebbe l’intervento nei confronti della Russia. Lo scenario immaginato dall’Economist mostra quindi come – dietro la minaccia del nucleare – la NATO si rivelerebbe debole e inefficace.
Se da giugno a settembre non piovesse in India
Ogni anno in India arriva la stagione dei monsoni, in cui per molti giorni cade molta pioggia. Nei tre mesi della stagione dei monsoni, da giugno a settembre, cadono tre quarti dell’acqua che cade in un anno in India. Le piogge diventano talvolta eccessive e causano problemi alla popolazione e all’agricoltura dell’India. L’Economist spiega però che i problemi sarebbero ancora maggiori se le piogge diminuissero e diventassero incostanti, quasi assenti.
600 milioni di persone (la metà degli abitanti dell’India) dipende strettamente dall’agricoltura e due terzi dei campi di tutta l’India non hanno sistemi d’irrigazione e si basano solo sull’acqua piovana: centinaia di milioni di persone non avrebbero più un lavoro e non avrebbero soldi per comprare il cibo, che comunque sarebbe sempre più scarso. L’India esporta molti prodotti alimentari: le sue esportazioni crollerebbero e i prezzi di certi alimenti salirebbero improvvisamente in tutto il mondo. L’ipotesi che per quei tre importanti mesi in India non piova è al momento irrealistica: i cambiamenti climatici degli ultimi anni fanno però pensare e temere che la stagione dei monsoni diventerà nei prossimi anni incostante e incapace di fornire ai campi indiani tutta l’acqua di cui hanno bisogno.
Se per un giorno non ci fosse internet
In un ipotetico giorno futuro in cui non funziona internet in nessun luogo del mondo, 196 miliardi di mail resterebbero in attesa di essere spedite, i 12 miliardi di visualizzazioni quotidiane di video di Facebook e YouTube semplicemente non esisterebbero, così come 3 miliardi di ricerche su Google e 500 milioni di tweet inviati.
Se non ci fossero armi negli Stati Uniti
In un futuro in cui il governo degli Stati Uniti decidesse di abolire l’uso delle armi, ci sarebbero 12mila morti in meno all’anno, 83.400 incidenti con armi da fuoco in meno e un risparmio di circa 158 miliardi di dollari.
Se scomparisse la malaria
Se la malaria dovesse scomparire si eviterebbero oltre 600mila morti all’anno, non ci sarebbero i circa 200 milioni di nuovi casi di malaria che ci sono al momento e l’Africa avrebbe un ritorno economico di almeno 10 miliardi di euro.
Se la malaria non si potesse più curare
L’Economist usa invece un video per spiegare cosa succederebbe se le medicine per la cura della malaria smettessero di funzionare.