In difesa del parto cesareo
Un articolo del New Scientist sostiene e argomenta una posizione controcorrente e critica la "glorificazione" del parto naturale
La rivista di divulgazione scientifica New Scientist ha pubblicato un articolo in difesa del diritto della donna di scegliere un parto cesareo non per motivi medici, criticando la “glorificazione” del parto naturale e sostenendo che spesso le donne non sono abbastanza informate sui suoi rischi e dunque libere di decidere per sé.
L’autrice dell’articolo, Clare Wilson, inizia col dire che la libera scelta dei e delle pazienti è diventata con il tempo un elemento sempre più accettato e diffuso della medicina moderna, e che per fare delle scelte è anche necessario essere pienamente informati. Se per esempio si ha la tonsillite, è bene conoscere tutti i pro e i contro di un’eventuale operazione e di quelli dell’alternativa di un trattamento antibiotico. Lo stesso dovrebbe valere per qualsiasi altra decisione medica. Ma questo principio viene spesso disatteso quando si tratta di un parto. Quando vengono pubblicati dati e ricerche (che mostrano un aumento in molti paesi, compresa l’Italia, del numero di cesarei) quegli stessi dati vengono letti con preoccupazione. Di «preoccupazione diffusa» parla per esempio l’Unione europea nella descrizione del progetto Optibirth lanciato per incentivare il parto naturale, in cui vengono presentati soprattutto i rischi dei cesarei. Wilson cita invece le linee guida del Royal College of Obstetricians & Gynaecologists (RCOG) del Regno Unito dove ci si sofferma soprattutto sulle conseguenze negative di un cesareo e sui benefici di un parto vaginale.
Oltre alle ricerche mediche, ci sono poi delle opinioni molto diffuse in materia: e cioè che le donne scelgano il cesareo per comodità, perché temono il dolore da parto o desiderano tornare prima ad avere una vita sessuale normale. Basta guardare alcuni articoli pubblicati in Italia, ma non solo, in cui l’aumento dei cesarei viene interpretato come una “colpa” attribuita di volta in volta o ai medici o alle richieste di donne timorose e male informate sulle conseguenze dell’operazione.
Quello che sostiene il New Scientist, invece, è che il cesareo è spesso presentato o sconsigliato dai medici poiché è un’opzione che ha una probabilità di complicazioni più alta del parto naturale (cosa vera essendo un’operazione chirurgica) ma che il parto naturale, pur presentando anch’esso dei rischi, non è soggetto alle stesse raccomandazioni. Il parto naturale è insomma generalmente considerato come una scelta predefinita, se non addirittura un oggetto di feticismo da parte di alcune organizzazioni o gruppi di donne. Eppure, dice Wilson, proprio come il cesareo anche il parto naturale ha alti rischi di complicazioni, che possono essere più o meno gravi sia per la madre che per il bambino. Wilson afferma che non sono rari i casi in cui il bambino muore o subisce danni cerebrali o la donna ha lesioni alle pareti pelviche, ai nervi o ai legamenti.
Clare Wilson cita uno studio svedese che mostra come vent’anni dopo il parto il 40 per cento delle donne che hanno partorito per via vaginale soffrano di incontinenza, contro il 29 per cento di quelle che hanno partorito con un taglio cesareo: la rieducazione perineale può limitare questo rischio, in alcuni paesi è praticata e rimborsata, ma in molti casi non viene nemmeno consigliata. Un altro dato interessante è che negli Stati Uniti circa la metà delle ostetriche, quando ha dovuto partorire, ha scelto un taglio cesareo. Il Guardian, in un articolo del 2008, ha scritto che la percentuale riferita al 1996 delle ostetriche nel Regno Unito era già pari al 31 per cento: prima cioè che venissero fatti significativi passi avanti nella procedura medica del cesareo.
New Scientist racconta infine una recente sentenza del Regno Unito che potrebbe influenzare la discussione sulla tipologia di parto o aiutare a sgomberare il campo da credenze e opinioni non basate sui fatti. La sentenza riguarda Nadine Montgomery, una donna che ha partorito naturalmente sedici anni fa un bambino che ha subito gravi danni cerebrali perché è rimasto bloccato con la testa contro il bacino della madre. La donna ha citato per negligenza il medico responsabile perché non l’aveva messa al corrente dei rischi di un parto vaginale. Lo scorso marzo la Corte Suprema britannica ha accettato il ricorso della donna, poiché ha stabilito che il medico non avesse sufficientemente informato la sua paziente né garantito il suo diritto all’autodeterminazione. Clare Wilson dice che che il Royal College of Obstetricians & Gynaecologist – l’organizzazione britannica che rappresenta ostetrici e ginecologi – si riunirà presto per discutere delle conseguenze della sentenza, anche se sarà molto difficile che valuti la possibilità di far firmare alle donne che partoriscono per via vaginale un modulo di consenso, protocollo già esistente per il parto cesareo.