La tragedia di Stava, 30 anni fa
Il 19 luglio 1985 la rottura degli argini costruiti per ospitare i detriti una miniera causò la morte di 268 persone: furono condannati in 10, ma nessuno di loro andò in carcere
Alle 12.22 del 19 luglio 1985, esattamente 30 anni fa, si ruppero gli argini dei bacini di decantazione che si trovavano sulle pendici del monte Prestavel, in val di Fiemme, in Trentino. Da quegli argini fuoriuscirono circa 170mila metri cubi di detriti, acqua e fango che andarono verso valle con una velocità di circa 90 chilometri orari e che raggiunsero in pochi minuti il comune di Tesero e una sua frazione, Stava. L’enorme massa di detriti, acqua e fango interessò un’area di oltre 400mila metri quadrati e causò la morte di 268 persone. Oggi quell’episodio è conosciuto come il disastro della valle di Stava ed è ricordato dalla onlus Fondazione Stava 1985, voluta e creata dai familiari di coloro che sono rimasti uccisi quel 19 luglio.
Gli argini che cedettero, liberando l’acqua e il fango che travolsero Stava, erano gli argini dei due bacini di decantazione della miniera di Prestavel, costruiti per accogliere i materiali di scarto. Negli anni Trenta del Novecento a Prestaval si era trovata la fluorite, un minerale usato nell’industria metallurgica. Negli anni dopo la Seconda guerra mondiale la miniera fu gestita da diverse società: Montecatini, Montedison, Eni e Prealpi. Il primo bacino di decantazione fu costruito nel 1961 dalla Montecatini: per legge non avrebbe potuto superare i nove metri di profondità, ma negli anni arrivò a misurarne 25. La Flourmine – una società del gruppo Montedison che nel frattempo aveva acquistato la miniera – decise nel 1974 di costruire un secondo bacino, più in alto rispetto al primo. Scrive il Corriere della Sera:
Giuseppe Zanon, sindaco di Tesero, segnalò al Distretto minerario della Provincia di Trento che forse non era il caso di innalzare anche il secondo bacino; gli venne risposto (dopo un sopralluogo di cui vennero incaricati gli stessi concessionari della miniera, passata all’epoca a Fluormine, del gruppo Montedison) che invece sì, lo si poteva fare «con le dovute cautele». La sua lettera venne archiviata.
Gli argini dei due bacini arrivarono a superare i 50 metri, e furono costruiti su un terreno instabile, pericoloso dal punto di vista idrogeologico e troppo vicino alla frazione di Stava. Negli anni ci furono diversi cedimenti minori. Non fu però mai scelto di porre rimedio agli evidenti problemi, nonostante le ripetute richieste delle autorità della zona. I bacini erano inoltre nati con dimensioni ridotte, e non furono mai classificati – pur essendolo nella pratica – come dighe: «Fino al 1985, sulle carte non esisteva traccia dei due bacini, citati ancora in una mappa dell’anno del crollo come “area agricola di interesse secondario“».
Veduta aerea dei due bacini (Ap Photo)
Dopo il crollo degli argini, l’acqua e il fango arrivarono rapidamente a valle e distrussero completamente tre alberghi, 53 abitazioni, sei capannoni, e otto ponti, causando gravi danni a decine di altri edifici. Molte delle 268 persone che morirono erano turisti: i morti del disastro di Stava provenivano da 64 comuni di dieci diverse regioni italiane. Più di cento corpi furono trovati solo nei giorni successivi al disastro di Stava. 13 dispersi non furono mai trovati.
In seguito agli eventi di Stava il tribunale di Trento nominò una Commissione ministeriale d’inchiesta che aveva il compito di consultare dei periti e determinare le responsabilità per il cedimento degli argini e le sue gravi conseguenze. Dopo le loro analisi i periti spiegarono che “l’argine superiore non poteva che crollare alla minima modifica delle sue precarie condizioni di equilibrio”:
Tutto l’impianto di decantazione costituiva una continua minaccia incombente sulla vallata. L’impianto è crollato essenzialmente perché progettato, costruito, gestito in modo da non offrire quei margini di sicurezza che la società civile si attende da opere che possono mettere a repentaglio l’esistenza di intere comunità umane.
Il processo successivo all’inchiesta si concluse nel 1992, con dieci condanne per i dirigenti della società che gestirono la miniera e per gli autori dei lavori e degli studi di fattibilità sui due bacini di decantazione. Nessuno di loro scontò mai la pena in carcere. Nella sentenza del 1992 fu scritto:
Se a suo tempo fosse stata spesa una somma di denaro e una fatica pari anche soltanto ad un decimo di quanto si è profuso negli accertamenti peritali successivi al fatto, probabilmente il crollo di quasi 170 mila metri cubi di fanghi semifluidi non si sarebbe mai avverato.