I colloqui sull’Iran tra scadenze, disaccordi e retroscena
Tre cose da sapere sulla storia che potrebbe diventare la più grande vittoria di Obama in Medio Oriente, oppure un'imbarazzante sconfitta
Dal 26 giugno scorso sono ricominciati a Vienna, in Austria, i colloqui sul nucleare iraniano, quelli decisivi per raggiungere un accordo definitivo tra l’Iran e i paesi del gruppo del 5+1, cioè i membri del Consiglio di Sicurezza con potere di veto (Regno Unito, Francia, Stati Uniti, Russia e Cina) più la Germania. Finora non è stato ancora trovato l’accordo conclusivo, e come era prevedibile i negoziatori hanno già superato alcune scadenze che si erano imposti prima di iniziare i colloqui. La questione è piuttosto complicata – i colloqui vanno avanti da quasi due anni – ma sintetizzabile così: i paesi del 5+1 – soprattutto Stati Uniti ed Europa – vogliono impedire all’Iran di sviluppare un’arma atomica e lo possono fare svolgendo delle regolari ispezioni ai siti nucleari iraniani e bloccando l’acquisto e lo sviluppo in Iran della specifica tecnologia necessaria per assemblare una bomba. L’Iran – che da sempre sostiene che lo sviluppo del nucleare ha solo obiettivi civili, e non militari – è disposto a fare concessioni in cambio dell’eliminazione di tutte o parte delle sanzioni internazionali che hanno causato dei gravissimi danni alla sua economia.
I negoziati si basano su un accordo preliminare trovato lo scorso aprile, i cui dettagli si possono leggere qui. I nuovi colloqui a Vienna sono l’ultima tappa di un processo molto lungo su cui ha investito in particolare l’amministrazione di Barack Obama, che ottenendo un accordo favorevole potrebbe migliorare l’immagine della sua politica estera in Medio Oriente, spesso giudicata insoddisfacente. Quelle che seguono sono alcune cose da sapere per muoversi più agilmente tra notizie di scadenze non rispettate, dichiarazioni notevoli dei protagonisti e qualche retroscena di cui si parla soprattutto in Italia.
Da sinistra a destra: il segretario di stato americano John Kerry, il ministro degli Esteri britannico Philip Hammond, il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier, il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, il segretario generale per il Servizio esterno della UE Helga Schmid, l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini, il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif e l’ambasciatore iraniano all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica Ali Akbar Salehi. L’incontro si è svolto il 6 di luglio all’hotel Palais Coburg di Vienna.
(JOE KLAMAR/AFP/Getty Images)
Le scadenze dei colloqui
I colloqui sul nucleare iraniano vanno avanti da così tanto tempo che l’impressione che hanno molti è che non si facciano mai dei passi avanti. In realtà non è così: questo “round” di colloqui, cominciato lo scorso 26 giugno a Vienna, è l’ultima tappa di un processo molto lungo. Quello di cui si sta discutendo in questi giorni è un accordo definitivo sul nucleare iraniano: un risultato che prima di oggi non è mai stato raggiunto. Le aspettative sono molte e alte: lo scorso aprile l’Iran e i paesi del 5+1 avevano trovato una specie di accordo preliminare definito “storico” e inaspettato da diversi giornalisti e analisti occidentali. Quell’accordo è però incompleto: mancano da definire diversi dettagli – alcuni su questioni molto dibattute – e manca la firma definitiva dei governi dei paesi coinvolti. Negli ultimi mesi l’Iran è sembrato tornare sui suoi passi su alcuni punti già contenuti nell’accordo preliminare: diversi analisti pensano però che si possa trattare solo di mosse per tranquillizzare gli oppositori interni più conservatori e per rafforzare il proprio potere contrattuale nei colloqui in corso.
Le scadenze sono diverse: nonostante alcune possano essere posticipate, il tempo sta per scadere. Il 30 giugno era la scadenza per raggiungere un accordo definitivo che si erano dati i partecipanti ai colloqui. Come era stato ampiamente previsto, il limite è stato posticipato una prima volta al 7 luglio e poi altre due volte: la scadenza ora è stata fissata per lunedì 13 luglio. La scadenza più pressante sembra però essere un’altra. L’amministrazione di Barack Obama sperava di avere un accordo definitivo da sottoporre al voto del Congresso entro il 9 luglio, la data stabilita negli Stati Uniti e contenuta in una legge apposita. Il mancato accordo entro quella data permetterà ai membri del Congresso americano di avere a disposizione il doppio del tempo inizialmente previsto per discutere e rivedere l’accordo (60 giorni al posto di 30): si tratta di un problema per Obama, vista la dura opposizione all’accordo dei Repubblicani, che controllano sia la Camera che il Senato. Per questa ragione giovedì il segretario di stato americano John Kerry ha detto: «Non staremo seduti al tavolo dei negoziati per sempre. Ma allo stesso tempo sappiamo che non possiamo alzarci e andarcene solo perché è scoccata la mezzanotte».
Il segretario di stato americano John Kerry durante una conferenza stampa di fronte all’hotel Palais Coburg, a Vienna, il 9 luglio 2015. (Carlos Barria/Pool Photo via AP)
Alcuni dei punti su cui non c’è accordo
Le questioni più controverse sono state discusse finora nella più assoluta segretezza, a eccezione di quei punti che sono stati usati da una parte o dall’altra per guadagnare del potere contrattuale nella trattativa. Il Washington Post ha messo in fila alcune delle questioni ancora irrisolte che sono state rese pubbliche nelle ultime settimane. Il punto più citato dagli iraniani è quello dei tempi della rimozione delle sanzioni internazionali all’Iran. I negoziatori si sono accordati sul fatto che l’eliminazione delle sanzioni debba essere associata alle ispezioni dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica nei siti nucleari iraniani: l’Iran chiede però che le sanzioni siano rimosse subito, mentre i paesi del 5+1 sembrano disposti a farlo solo dopo le verifiche internazionali.
Un altro punto molto discusso è l’embargo sulla vendita di armi all’Iran. Gli Stati Uniti si oppongono all’idea di rimuoverlo, ma di opinione diversa sono Russia e Cina, due degli stati che fanno parte del 5+1 e sono rispettivamente secondo e settimo paese per vendita di armi nel 2014 (secondo i dati del SIPRI, lo Stockholm International Peace Research Institute, nel 2013 i due paesi erano rispettivamente il primo e il terzo nel mondo in questa specifica classifica). La questione dell’embargo sulla vendita delle armi evidenzia uno dei problemi più grandi dei negoziati sul nucleare iraniano: la presenza di forti divisioni nel gruppo dei 5+1, in particolare per le posizioni di Russia e Cina molto più concilianti nei confronti dell’Iran. Queste difficoltà si riflettono anche sui complicati meccanismi dei colloqui che si stanno tenendo a Vienna, come racconta il Washington Post:
In un normale giorno di negoziati, Kerry ha incontri separati con la sua controparte iraniana, Mohammad Javad Zarif, e altri colloqui bilaterali con i diplomatici dei paesi del 5+1. Poi il 5+1 si incontra come gruppo con gli iraniani, prima di tenere dei singoli colloqui bilaterali. “Durante i negoziati”, si è lamentato un funzionario iraniano, “i nostri amici passano più tempo a coordinare le loro posizioni piuttosto che a negoziare con noi”.
I retroscena
Negli ultimi giorni stanno circolando molti retroscena sui colloqui in corso a Vienna. Mercoledì Bloomberg ha raccontato di un litigio piuttosto intenso tra il segretario di stato americano John Kerry e il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif. Poi di un’altra sfuriata di Zarif in una riunione del 5+1 e poi di un contrasto tra Zarif e Federica Mogherini, il capo della diplomazia europea (ovvero l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza). Stando ad alcune ricostruzioni della stampa russa e iraniana – non certo garanzie di libertà di stampa: entrambe sono ampiamente sotto il controllo dei rispettivi governi – Mogherini avrebbe detto a Zarif che gli iraniani potevano interrompere i negoziati, se non volevano raggiungere un accordo. Zarif avrebbe risposto “mai provare a minacciare gli iraniani” e sarebbe stato sostenuto anche dal ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, che avrebbe detto “nemmeno i russi” (da qui la diffusione dell’hashtag #NeverThreatenAnIranian). I retroscena sono stati ripresi da diversi siti di news italiani, ma hanno avuto poca risonanza sui principali giornali internazionali. Nessuna di queste notizie, ovviamente, è stata confermata.
Federica Mogherini e Mohammad Javad Zarif all’hotel Palais Coburg di Vienna, il 6 luglio 2015. (JOE KLAMAR/AFP/Getty Images)