7 canzoni dei Blondie

Debbie Harry compie oggi 70 anni, e ancora nei locali di tutto il mondo si ballano le sue cose che fecero il botto negli anni Settanta

Debbie Harry compie 70 anni il primo luglio 2015: Debbie Harry o “Blondie”, come molti la conoscono per via della voluta confusione tra il suo e il nome della sua band con cui divenne famosa negli anni Settanta e Ottanta. Ancora adesso, alcuni loro pezzi degli anni Settanta sono suonati e ballati nei locali di tutto il mondo, e alcune invenzioni di rap e discomusic sono campionate e usate in molte altre composizioni. Lei è di Miami, ha frequentato tutto quello che succedeva a New York in quegli anni ruggenti, e per i meno anziani di voi queste sono le canzoni dei Blondie che Luca Sofri, peraltro direttore del Post, scelse per il suo libro Playlist, La musica è cambiata.

Blondie (1974, NewYork,NY)
Diciamocelo: senza una bionda come Debbie Harry e un nome come Blondie, probabilmente non ce l’avrebbero fatta. Ma se lo meritarono, di fare il botto con una manciata di canzoni. Erano partiti quasi punk, si sistemarono sulla new wave, spopolarono con la discomusic, si divertirono col reggae e col rap, e si esaurirono con un pop povero di idee. Ma, per un periodo, provarono a essere i Velvet Underground degli anni Ottanta.

Denis

(Plastic letters, 1977)
Il loro primo pezzo a farsi notare nel panorama musicale fu una cover, e piuttosto mainstream per i loro standard. Per quelli di noi canticchiatori da doccia, invece ce la fa.

Heart of glass
(Parallel lines, 1978)
Esisteva già da quattro anni, e la suonavano dal vivo più lenta. Per inserirla nell’album Parallel lines la riarrangiarono disco e, vista l’aria che tirava, arrivò al numero uno al di qua e al di là dell’oceano. Contestata dai fans duri e puri come un tradimento dell’indole ribelle della band, è in realtà una delle molte dimostrazioni della proficua curiosità dei Blondie.

Atomic
(Eat to the beat, 1979)
Al giro successivo, andò benino, ma non benissimo. Ma ormai si era capito dove bisognava battere: base disco e pezzo new wave. Questa canzone ha conosciuto una riscoperta quando fu inserita in un episodio della serie di videogame Grand Theft Auto, ma se la mettete a una festa c’è comunque da divertirsi.

Call me
(American Gigolo, 1980)
Per tornare in cima alle classifiche fu necessario che la canzone fosse il tonante inno delle avventure di Richard Gere in American Gigolo. Nel disco della colonna sonora c’è la versione da otto minuti. Giorgio Moroder – coautore della canzone con Debbie Harry – aveva dapprima contattato Stevie Nicks, che aveva rifiutato.

Rapture
(Autoamerican, 1980)
Un pezzo di storia. Passa come la prima canzone hip-hop a essere arrivata al numero uno negli Stati Uniti, per via della lunga parte rappata centrale. Ma fu comunque un’invenzione geniale, per quei tempi, e un suggerimento ante litteram che per consegnare il rap alla posterità bisogna comunque costruirci una vera canzone intorno.

The tide is high
(Autoamerican, 1980)
A farci caso, è uguale a “Denis”, solo virata reggae e con aggiunta di suoni tropicali. Solo che anche questa è una cover, scritta nel 1967 per i Paragons. Comunque, vale lo stesso giudizio: gradevole canzonetta, non alla loro altezza.

Island of lost souls
(The hunter, 1982)
Insistendo sul caraibico, almeno qui si staccarono dal reggae, mantenendo solo un arrangiamento da spiaggia e consentendo ai vocalizzi di Debbie Harry di combinare qualcosa di più eccitante.