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  • Venerdì 26 giugno 2015

Il più famoso allenatore di tennis al mondo

È Nick Bollettieri, che ha insegnato a giocare a un mucchio di campioni leggendari: ora ha scritto un'autobiografia, questo è quello che scrive di Andre Agassi

Nick Bollettieri con Andre Agassi, 15 novembre 1990. 
(John Russell/Getty Images)
Nick Bollettieri con Andre Agassi, 15 novembre 1990. (John Russell/Getty Images)

Mondadori ha da poco pubblicato Cambiare gioco, l’autobiografia di Nick Bollettieri, probabilmente l’allenatore di tennis più famoso di sempre. Bollettieri – nato il 31 luglio del 1931 in una famiglia italoamericana di Pelham nello stato di New York – ha allenato tennisti importanti (in alcuni casi leggendari) come Andre Agassi, Jim Courier, Monica Seles, Maria Sharapova, Sara Errani, le sorelle Williams, Martina Hingis, Kei Nishikori e Boris Becker. Ha insegnato a giocare a centinaia di altri allievi nella sua accademia, la Nick Bollettieri Tennis Academy (NBTA), fondata nel 1978 a Bradenton, in Florida, e tuttora attiva. L’Academy secondo gli esperti ha di fatto cambiato il modo in cui viene insegnato il tennis.

Nel libro Bollettieri, che tra poco compirà 84 anni, racconta la sua carriera, la sua vita movimentata – ha avuto otto mogli e sette figli – i suoi consigli sul gioco e molti aneddoti sui suoi dieci allievi arrivati al primo posto della classifica ATP dei tennisti professionisti. Di seguito, il capitolo dedicato ad Andre Agassi, che Bollettieri ha allenato per dieci anni, dal 1983 al 1993: i due hanno avuto un rapporto intenso e burrascoso, ma hanno anche vinto insieme il primo Slam di entrambi (cioè uno dei tornei più prestigiosi del tennis), quello di Wimbledon nel 1992.

***

Andre Agassi non aveva soltanto un enorme talento per il tennis. Possedeva la genialità di chi cambia il gioco, comune a pochi nella storia della disciplina. A partire dai suoi lunghi capelli fluenti e talvolta ossigenati, fino agli abiti vistosi, per lui l’immagine era tutto. Con la sua personalità sfrontata ed esuberante fece irruzione in uno sport che per certi versi molti consideravano timido e scialbo, diventando la prima rockstar del tennis. Quello che era un passatempo per gentiluomini a tinte pastello, con Andre diventò selvaggio ed elettrico. Lo catapultò nella sfera pubblica in un modo del tutto nuovo e lo rese sexy come nessuno mai fece prima o dopo di lui.
A quattordici anni Andre era già un personaggio. Capitava di vederlo un giorno con i capelli rossi e il giorno dopo con i capelli blu, con tanto di unghie smaltate e, certe volte, persino il fard. Allo stesso tempo aveva un dritto violentissimo e l’ostinazione agonistica di un campione. Nel suo primo anno all’Academy vinse i titoli di singolo e doppio under 16 allo US National Indoor. In tutto ne vinse una cifra.

Certo, i suoi comportamenti adolescenziali sfociarono anche in momenti difficili per lui e per chi gli stava intorno. Se a ciò si aggiunge il suo rapporto di amore-odio con il gioco – dovuto a una relazione esasperante con il padre ambizioso –, ecco che si spiega l’aura di frustrazione che lo circondava. I suoi tentativi di tastare i limiti dell’Academy catturavano l’attenzione generale. Si ribellava al coprifuoco e una volta eresse una torre di bottiglie di whisky vuote in camera sua (pur sapendo delle frequenti ispezioni del personale), ma noi non capivamo che si trattava di puro esibizionismo. Jim Courier e altri talenti del mio gruppo di futuri campioni si chiedevano perché non buttassi fuori dall’Academy quel ragazzino sfrontato e ribelle. Anche alcuni dei miei coach ritenevano che dovesse andarsene. In una riunione del personale votarono tutti a favore dell’espulsione, ma io ci pensai e posi il mio veto. Ho l’innata capacità di intuire il potenziale di un giovane e in quel piccolo cane sciolto intravedevo qualcosa di unico. Che fosse un istinto viscerale o un dono speciale di Dio, c’era una voce dentro di me che mi diceva: «Non mandarlo via».
Di recente ho inviato un sms ad Andre chiedendogli se ricordava esattamente quando avesse messo piede all’Academy per la prima volta. Nel giro di un quarto d’ora mi ha risposto.

Eh, i dettagli sono sempre una bella sfida. Sono venuto alla NBTA nel marzo del 1984. Poi quando mi hai visto giocare sul granulato di gomma del campo indoor è stata emessa la mia condanna a vita. Siamo andati insieme al telefono e ti ho sentito parlare con mio padre: «Ho deciso di strappare il suo assegno. Non pagherà un centesimo né ora né mai». Questo accadde a fine aprile. Allora vivevo nel «blocco C». Tutti gli edifici venivano identificati come blocchi carcerari.

Come già in passato, gli risposi: «Ma tu avevi le chiavi di tutte le serrature!». A un certo punto, quando Andre ne ebbe abbastanza di me e dell’Academy, fece le valigie e si mise in strada. Julio Moros lo vide uscire e lo seguì con la macchina. Andre non sapeva dove andare, voleva solo «andare via», e Julio ci mise un po’ di tempo per convincerlo a salire in macchina e tornare indietro.
Questo e altri episodi portarono a un incontro memorabile tra me e Andre. Fritz Nau, un amico di lunga data, responsabile del programma di eccellenza dell’Academy oltre che supervisore del gruppo di adulti, consigliò ad Andre di lasciarmi parlare senza interrompere finché non avessi detto tutto quello che avevo da dire. In seguito, cioè solo una volta che avessi finito, Andre avrebbe potuto esporre le sue lamentele. Così fece, elencando tutto ciò che lo infastidiva dell’Academy. Allo stesso tempo, si espresse con una tale maturità, chiarezza e compostezza, che capii che a quindici anni aveva finalmente preso in mano il proprio destino e da quel momento il nostro rapporto cambiò.
Negli anni in cui Andre fece carriera con me, Fritz fu un mentore, un confidente e un alleato. Quando oggi riparliamo di quel periodo, spesso ci chiediamo come siamo riusciti a tenere le fila di tutto!
Un altro importante membro della squadra di Andre era suo fratello Phillip che, venendo in accademia, consacrò la propria vita a dare un senso di normalità e di equilibrio al mondo di Andre. Fu molto importante, perché l’eccezionale talento di Andre andava insieme con una sensibilità e una consapevolezza molto speciali. Non gli è mai piaciuto che gli si urlasse contro dall’altro lato della rete. Potevo farlo con Jimmy Arias, con Carling Bassett e con altri, ma non con lui!
Un giorno, mentre si esercitava nei vecchi campi al coperto, io e Phillip eravamo dietro di lui a chiacchierare e ridacchiare per una storiella divertente. Erano gli ultimi allenamenti prima di partire per Itaparica, in Brasile, alla volta di un torneo. Andre si voltò e disse: «State ridendo di me? Allora non vado da nessuna parte!». E abbandonò il campo. Alla fine riuscimmo a convincerlo che stavamo ridendo per un altro motivo e lo spronammo a continuare ad allenarsi. Vinse quel torneo, stendendo il numero tredici e il numero quindici del ranking mondiale.
Un’altra volta eravamo al Longwood Cricket Club, in Massachusetts, per un torneo. Io e Phillip scovammo il tennista con cui se la sarebbe dovuta vedere al primo turno, un destrorso, e ci dicemmo che Andre l’avrebbe affrontato con facilità. Ma, ahimè, sbagliammo persona: il suo vero sfidante era mancino. Andre ci guardò con disgusto e si diede immediatamente per vinto, imputando quel fallimento alla nostra incompetenza. Non aveva tutti i torti e gli assicurai che non sarebbe accaduto mai più.
La sua ascesa fu come un giro vorticoso sulle montagne russe. Benché all’inizio le liti tra di noi fossero all’ordine del giorno, mi votai a lui con tutto il cuore. Sentivo che non solo Andre possedeva un talento unico, ma i demoni che lo perseguitavano erano intrinsecamente legati al suo genio; e, vedendolo maturare, ero disposto a dargli ampio sostegno e libertà d’azione.
Nel luglio 1987 Andre sfidò Patrik Kühnen nel campo centrale di Washington D.C. in un incontro notturno speciale in occasione del torneo Sovran Bank Classic. Con il suo abbigliamento estroso, la chioma selvaggia e i suoi ricchi contratti da testimonial, Andre era sulla bocca di tutti. La cosa infastidì molti dei giocatori affermati, che vollero dare una lezione a quel ragazzino impertinente. Dopo il primo set, Andre iniziò a irrigidirsi e a dubitare delle proprie capacità di vincere e di sfondare come tennista, e Patrik ebbe vittoria facile: 4-6, 6-4, 6-0. Alla fine del match uscii dalla tribuna degli allenatori e Phillip e il manager di Andre, Bill Shelton, mi dissero che Andre si trovava nell’area boschiva destinata al parcheggio dall’altra parte della strada e stava distruggendo le sue racchette. Lo raggiunsi e gli chiesi dolcemente che cosa c’era che non andava.
«Non ce la faccio» urlò. «Non ce la posso fare.»
Io indicai il mio polso sinistro e dissi: «Andre, vedi forse un orologio? Andre, vedi un orologio qui? Nessuno vuole metterti fretta. La tua squadra crede in te. Ti seguiremo in ogni tuo passo». Lui mi guardò con un’espressione carica di dubbio e di curiosità. Mi avvicinai un po’ e quasi in un sussurro gli dissi: «Diventerai un grande tennista, ragazzo».
Facemmo le valigie e partimmo per il torneo successivo, che si teneva a Stratton Mountain, in Vermont. E, accidenti, che torneo fu quello per Andre! A quel punto era novantesimo nel ranking del circuito ATP e vinse quattro match di fila, compreso uno contro Pat Cash, il numero sette del mondo. Arrivato alle semifinali, perse con Ivan Lendl, che allora era il numero uno. Così iniziò la sua ascesa alla celebrità internazionale.
Pur con tutto il suo talento e le sue doti, Andre era un insicuro, fatto non inconsueto quando si gioca ai massimi livelli atletici. Per i genitori e gli allenatori è essenziale capire che anche una parola sbagliata può distruggere un ragazzo. Allo stesso tempo è cruciale individuare gli aspetti positivi delle loro prestazioni e incoraggiarli. Eppure, il potere della fiducia in se stessi è incredibilmente sottovalutato. Essere sicuri di sé al cento per cento è un ingrediente fondamentale per diventare un campione.
Altro elemento importante, che a mio avviso può fare la differenza tra il successo e il fallimento, è avere un bel gruppo di sostenitori; e Andre, per sua fortuna, aveva un magnifico team. Oltre a suo fratello Phil, della sua squadra facevano parte Bill Shelton, il primo manager nero a lavorare con un grande tennista, scomparso nel 2011. Aveva una gran bella voce ed era bravissimo a imitare Nat King Cole. Andre amava sentirlo cantare.
Benché detestasse volare, Fritz Nau seguì Andre in tutti i grandi tornei, eccetto l’Australian Open. Era una presenza discreta e serena, ma salda come una roccia nel sostenere il suo allievo e cruciale nel restituirgli fiducia in se stesso dopo le prime tre finali del Grande Slam perse contro Pete Sampras agli US Open e contro Andrés Gómez e Jim Courier al Roland Garros.
Un’altra persona speciale che non è stata elogiata quanto merita è Gil Reyes, suo personal trainer, guardia del corpo e amico di lunga data. Gil fece del suo meglio per gestire la forma fisica e la dieta di Andre, che però è sempre stato uno spirito libero. Ricordo che una volta al Roland Garros Andre mandò me e Bill Shelton da McDonald’s. Spendemmo duecento dollari in hamburger, patatine fritte e soda. Poi Andre abbassò l’aria condizionata fino a quasi cinque gradi e ci mettemmo a guardare dei film horror tutti insieme. Come preparatore atletico, Gil rabbrividiva davanti a simili comportamenti, ma era l’unico modo per tenere calmo e rilassato Andre.
Andre batté Paul Annacone, un altro mio allievo, il giorno del mio cinquantasettesimo compleanno. In seguito Paul mi disse: «Per farti un regalo ce la siamo giocata tra di noi».
Per non impazzire durante i nostri vagabondaggi facemmo anche altre follie. Un anno, agli Internazionali d’Italia, alloggiammo tutti in un hotel abbarbicato sul fianco di una collina. Eravamo al quinto piano e decidemmo di comprare dei palloncini per lanciarli dalle finestre e farli scoppiare con delle fionde. La gente seduta sui balconi sottostanti si spaventò, come pure chi, per strada, dagli autobus e dalle macchine, si vide cadere sul tetto quella pioggia di colpi. A un certo punto arrivò la polizia e, per fortuna, non ci arrestarono.
Al suo primo torneo di Wimbledon, nel 1987, Andre dovette giocare il primo turno sul campo numero due, noto a tutti come il «cimitero dei campioni». I top player odiavano quel campo, perché aveva condotto a tanti esiti inaspettati. Lo sfidante di Andre era Henri Leconte, il numero uno francese. Il match era finito così rapidamente che a stento avevo avuto il tempo di prendere posto. Il risultato fu: 6-2, 6-1, 6-2. Andre disse: «Fuori di qui». Decise, come già prima di lui aveva fatto Ivan Lendl, che «l’erba è per le mucche». Disertò il torneo per i successivi tre anni. Forse per un po’ si fece intimidire dalle apparenze, ma questo in seguito non gli impedì di scrollarsi di dosso il problema, come è nel suo stile.
Qualche giorno prima del torneo del 1992 Andre mi chiamò alle tre di notte a casa, in Florida.
«Nick,» mi disse «che facciamo per Wimbledon?»
«Andre, mi aspettavo che fossi tu a dirmi cosa fare.» Lui propose di andare a Boca Raton per allenarci insieme nei due giorni successivi. Naturalmente capii che ci sarebbe stata anche la sua ragazza, Wendi Stewart, oltre a Carling Bassett e suo marito Robert Seguso, che gestivano il tennis club di Boca.
Così, insieme a Fritz Nau e Raúl Ordóñez, decidemmo di infilarci nella mia Bronco e aspettarli lì, perché nel frattempo volevamo giocare un po’ a golf. Il giorno prima di partire per l’Europa, Andre annunciò di volersi finalmente allenarsi. Non colpiva una pallina da tennis dal Roland Garros, cioè da ben due mesi! Trovammo due campi in terra verde circondati da splendidi alberi e fingemmo che fosse l’erba di Wimbledon. Dopo circa trenta minuti di allenamento, Andre dichiarò di sentirsi pronto, e io mi dissi d’accordo, pur non senza qualche dubbio. Aveva una capacità sorprendente di riprendere la racchetta in mano dopo settimane e colpire la palla come se non se ne fosse mai allontanato.
Quando arrivammo in Inghilterra, demmo una lezione dimostrativa in un grande magazzino e un giornalista gli chiese come andassero gli allenamenti. Andre mi fece l’occhiolino, sorrise, e gli assicurò che nelle due settimane precedenti aveva lavorato sodo a Boca ed era preparatissimo! Sarò onesto: non gli davo la benché minima chance.
Rischiò di uscire un’altra volta al primo turno giocando contro Andrej Cesnokov, un pericoloso tennista russo. Quando capì che gli si prospettava una sconfitta nel primo set, Andre cominciò a fare qualche commento greve – ok, diciamo proprio che lo provocò – e uno dei giudici di linea riferì la cosa al giudice arbitro. Ma, fortunatamente, al giudice Andre e io eravamo simpatici, così fece finta di niente e Andre se la cavò con una multa. L’incontro fu sospeso per l’arrivo del buio, dandoci il tempo di riorganizzarci, e il giorno dopo Andre vinse tre set di fila e il match per accedere al turno successivo.
Da quel momento tutto sembrò andare per il verso giusto. Nel percorso verso le finali, Andre sconfisse due ex campioni di Wimbledon, Boris Becker e John McEnroe. Ma il culmine fu la finale al cardiopalma, una battaglia appassionante in cinque set agitata da rovesciamenti improvvisi. Goran Ivaniševi|, al tempo il tennista con il miglior servizio, sferrò 37 incredibili ace. Ma Andre, il miglior ribattitore nella storia del tennis, non si lasciò spaventare e gli rispose a tono. Quando Goran rinviò in rete il rovescio finale di Andre, lui si buttò in ginocchio e alzò le braccia al cielo in trionfo. Fu così che si aggiudicò quella vittoria a Wimbledon, il primo degli otto titoli del Grande Slam della sua carriera. L’erba non era più buona solo per le mucche. Era il terreno di Andre.
Per quanto mi riguarda, fu una sensazione indescrivibile. Era la prima vittoria al Grande Slam anche per me che ero in panchina a fare il tifo per un mio giocatore. E nientemeno che a Wimbledon, il più importante torneo di tennis del mondo! Per un allenatore non c’è niente di più emozionante che essere il mentore di un campione del Grande Slam. È stato uno dei più bei giorni della mia vita.
La sera dopo, tutti in ghingheri, andammo al ballo di Wimbledon, durante il quale veniva conferita l’onorificenza ai campioni. A vincere nel singolo femminile era stata Steffi Graf, che alcuni anni a venire, dopo essersi ritirata dalla sua stellare carriera, sarebbe diventata la moglie di Andre. Fu una degna celebrazione di tutto il lavoro fatto da me e lui per arrivare sin lì.
Ma, dopo aver vinto a Wimbledon, Andre ebbe una specie di calo che durò quasi un anno. Mi accorsi che le cose stavano cambiando. Al posto di Bill Shelton, Andre ingaggiò come manager il suo amico di infanzia Perry Rogers. Iniziò a consultare altri allenatori e io mi sentivo sempre più a disagio e mi chiedevo tra me e me quando mi avrebbe sostituito. Mi feci un profondo esame di coscienza e, arrivato alla conclusione che dopo circa dieci anni insieme era giunto il momento di porre fine al nostro rapporto, scrissi una lettera ad Andre per comunicargli la mia decisione. Fu uno dei più grandi errori della mia vita. Avrei dovuto partire per Las Vegas e dirglielo di persona. L’altro errore fu di rivelare a un giornalista la mia decisione; Andre apprese della nostra separazione dai giornali, prima di ricevere la mia lettera. Era sconvolto, come lo sarebbe stato chiunque.
Il modo in cui gestii quella situazione resta uno dei pochi rimpianti della mia vita. Se fossi saltato su un aereo, se mi fossi seduto a parlare con lui faccia a faccia e gli avessi detto perché volevo abbandonare il team, le cose sarebbero potute andare diversamente. Le questioni delicate vanno affrontate con ponderatezza. E quando ci sono di mezzo gli amici e gli affetti, bisogna agire sempre nel rispetto di quei rapporti. So che per lui ero come un padre e avrei dovuto comportarmi meglio nei suoi riguardi. Forse se avessi affrontato la situazione nel modo giusto avremmo continuato a fare squadra, chi può dirlo.
A quei tempi eravamo entrambi profondamente feriti e per un po’ continuammo a girare il coltello nella piaga, come ho raccontato in dettaglio nel libro che ho scritto con Dick Schaap, My Aces, My Faults. So che nel suo memoir Andre è molto critico nei miei confronti e paragona l’Academy a una prigione. Onestamente, non ho letto neanche una parola di quel libro, ma ormai è tutta acqua passata.
Pian piano, nel tempo, ci siamo lasciati alle spalle quel risentimento. Al Canadian Open ci siamo seduti insieme in mensa e siamo rimasti un po’ a parlare. Abbiamo chiacchierato delle mie figlie Alex e Nicole, che mi raccontavano sempre di quanto fosse affettuoso con loro Andre. Con i bambini ci sapeva fare. Jack Schneider e Mr Marx, entrambi suoi grandi amici (Mr Marx e Andre fecero anche affari insieme), gli avranno certamente detto che eravamo troppo intimi per rimanere nemici. Di sicuro io la vedevo così. Iniziai a scrivergli delle lettere. Ci scambiavamo biglietti di auguri per Natale, aggiornandoci sulle rispettive famiglie. E ogni volta che ci incontravamo ai tornei scambiavamo qualche parola. Andre non ha partecipato ai festeggiamenti per il trentesimo anniversario della NBTA, ma mi ha inviato un video con bellissimi commenti su di me e sul nostro rapporto che è stato proiettato durante l’evento. Oggi siamo di nuovo grandi amici. So che se avessi bisogno d’aiuto, lui correrebbe in mio soccorso e lo stesso vale per me.

Sono orgoglioso di tutto quello che abbiamo fatto per lui all’Academy. Credo che, non fosse stato per il nostro gruppo di supporto, probabilmente non avrebbe raggiunto un tale successo. Il vecchio adagio secondo cui per far crescere un bambino serve un intero villaggio è particolarmente azzeccato nel caso di Andre. Quel villaggio comprendeva suo padre Mike, sua madre Betty, sempre calma e serena – una roccia in un mondo spesso in tempesta – suo fratello Phillip e altri membri della famiglia, Fritz Nau, Gil Reyes, io e Bill Shelton. È stato Dio a volere che tenessi Andre all’Academy e valorizzassi il suo comportamento idiosincratico. E anche se il nostro è stato un rapporto a fasi alterne, non ho problemi ad ammettere che i nostri sette anni insieme sono stati tra i più belli della mia vita.
Ma oltre a essere orgoglioso di Andre come tennista, sono altrettanto fiero di lui come uomo. Ha messo su una splendida famiglia con sua moglie Steffi Graf e i loro due bei bambini. Ha aperto una charter school privata con un tasso di diplomati strepitoso. Ha raccolto milioni di dollari per la sua e per altre scuole nei dintorni di Las Vegas e ha organizzato delle mostre per coinvolgere i bambini dei quartieri più degradati della città.
Oggi Andre Agassi è un uomo serio e generoso il cui contributo alla società va ben oltre i suoi successi da tennista.