Le cose che non si possono usare nella NBA
Le scarpe Timberland, i medaglioni stile hip-hop e le fasce con il logo NBA al contrario: storie dietro il rigido dress code nel campionato di basket più famoso al mondo
La sera del 19 novembre del 2004 si stava giocando a Detroit la partita NBA (National Basketball Association, la principale lega professionistica di basket nordamericana) tra gli Indiana Pacers e i Detroit Pistons. I rapporti tra le due squadre non erano troppo buoni: alla fine della stagione precedente Detroit e Indiana avevano giocato contro nelle finali di Conference dei playoff e c’erano stati alcuni falli piuttosto duri ed era rimasta parecchia tensione. A circa 46 secondi dalla fine della partita del 19 novembre cominciò “la più tremenda rissa della storia della NBA”, come fu chiamata dai giornali statunitensi: la rissa cominciò tra alcuni giocatori – Ron Artest, Ben Wallace e Stephen Jackson, soprattutto – e coinvolse poi alcuni spettatori, dopo che un tifoso tirò dagli spalti un bicchiere di Coca-Cola colpendo Artest: un commentatore a bordo campo si fratturò cinque vertebre, un tifoso ricevette un pugno di Artest, e i giocatori di Indiana dovettero essere scortati fuori dal campo prima che la situazione degenerasse ulteriormente. Furono multati nove giocatori per un totale di 10 milioni di dollari e furono date 146 partite di sospensione. Ma soprattutto fu un danno d’immagine enorme per la NBA guidata dal commissario David Stern, che l’anno successivo prese delle misure per cambiare le cose.
Il 17 ottobre 2005 Stern annunciò l’introduzione di un “dress code”, un insieme di regole per i giocatori della Lega riguardanti il loro modo di vestire. Dell’iniziativa di Stern se ne parlò molto, perché prima di allora nessun’altra grande lega sportiva statunitense aveva mai adottato delle regole di questa portata. Il “dress code” di Stern prevedeva che i giocatori dovessero vestirsi in modo “classico” o comunque abbastanza formale prima e dopo le partite, durante le conferenze stampa e in qualsiasi altro evento pubblico legato alla NBA. Il nuovo regolamento fu visto soprattutto come un tentativo di eliminare la cultura hip hop e tutto ciò che gli era associato: magliette da gioco, jeans, cappellini, do-rags (le “cuffie”), magliette, medaglioni e le scarpe Timberland. Con il provvedimento di Stern si allungò di parecchio la lista delle cose che non potevano usare o indossare i giocatori della NBA. Molti dei divieti in vigore allora continuano ancora oggi: il magazine Highsnobiety ha raccolto tredici cose che per un motivo o per l’altro sono state vietate dalla NBA.
(dentro ogni foto, una spiegazione con le motivazioni del divieto)
Il “dress code” di Stern provocò parecchie polemiche e fu contestato da molti giocatori NBA. In diversi definirono il provvedimento “razzista”, perché i divieti erano rivolti sostanzialmente a un unico gruppo: maschi neri legati alla cultura dell’hip hop. Uno dei critici più duri fu Allen Iverson, storico playmaker dei Philadelphia 76ers e uno dei giocatori NBA più vicini alla cultura hip hop nel mondo di vestirsi (per esempio, Iverson era un grande amante dei do-rags). Negli anni successivi la NBA introdusse altri divieti, alcuni piuttosto bizzarri: disse per esempio a Rajon Rondo, l’allora playmaker dei Boston Celtics, che non poteva indossare la fascia con il logo della NBA ribaltato; disse anche a Imam Shumpert, l’allora guardia dei New York Knicks, che doveva togliersi il disegno di Adidas che si era fatto come particolare acconciatura. Alcuni divieti, come quello dei “compression tights”, non vennero sostanzialmente mai applicati. Il dress code di Stern è valido ancora oggi, ma viene applicato in maniera abbastanza elastica, e molti divieti sono sostanzialmente scomparsi. Per esempio il regolamento di Stern comprende il divieto di indossare accessori sulla testa durante le conferenze stampa, se non identificabili con la squadra e approvati dalla società: è molto comune però vedere interviste a giocatori – come LeBron James – con in testa cappelli che non c’entrano nulla con la NBA.