La storia dell’Estadio Nacional
Nello stadio più grande del Cile, dove si giocherà la finale della Coppa America, il regime di Pinochet torturò migliaia di persone: oggi a ricordarle sono rimaste delle panchine in legno e un museo
Dall’11 giugno il Cile ospita la Coppa America, il più importante trofeo sudamericano di calcio per squadre Nazionali: la finale si giocherà il 4 luglio all’Estadio Nacional, che si trova nel comune di Ñuñoa, non molto lontano da Santiago del Cile, la capitale cilena. Oltre alla finale, L’Estadio Nacional è stato scelto per ospitare altre cinque partite della Coppa America: è lo stadio più grande del Cile e può accogliere 48mila spettatori. L’Estadio Nacional, prima che luogo per grandi eventi sportivi, è noto perché dall’11 settembre del 1973 – il giorno del colpo di stato contro l’allora presidente cileno Salvador Allende – divenne per alcune settimane un campo di prigionia usato dalla dittatura militare del generale Augusto Pinochet.
Gli anni del regime di Pinochet furono molto duri per il Cile e la giunta militare fece ampio uso della violenza fisica nei confronti dei suoi oppositori: nell’Estadio Nacional furono interrogate e torturate migliaia di persone e almeno 41 furono uccise. Oggi per ricordare quelle settimane, e l’uso che il regime di Pinochet fece dello stadio, sono state lasciate delle panchine di legno, facilmente riconoscibili: si trovano dietro la curva nord dello stadio e non vengono mai occupate dagli spettatori degli eventi sportivi. Sotto l’Estadio Nacional è possibile visitare anche un museo che ricorda gli anni della dittatura di Pinochet.
Il New York Times ha intervistato alcuni dei prigionieri che nel settembre e nell’ottobre del 1973 furono torturati dai militari al servizio di Pinochet. Molti di loro hanno raccontato che prima del golpe erano soliti assistere alle partite di calcio giocate all’Estadio Nacional, che era stato inaugurato nel 1938 e che nel 1962 aveva ospitato la finale dei Mondiali di calcio, vinta dal Brasile. Felipe Aguero, uno dei sopravvissuti, ha raccontato che nel 1973 aveva 21 anni e fu fatto prigioniero perché era membro di un partito politico che sosteneva Allende: ha detto di essere stato bendato, ripetutamente percosso e torturato con “intense scariche elettriche“.
L’Estadio Nacional riprese la sua funzione “sportiva” dopo alcuni mesi il golpe, perché doveva ospitare una partita di calcio tra la Nazionale cilena e quella dell’Unione Sovietica, valevole per la qualificazione ai Mondiali di calcio del 1974: Cile e Unione Sovietica avevano pareggiato la gara di andata giocata a Mosca e la partita di ritorno era molto importante. L’Unione Sovietica chiese alla FIFA di non giocare la partita, perché quello stadio era un “luogo di sangue” (i rapporti tra regime sovietico e cileno non erano buoni). La FIFA mandò degli ispettori per accertarsi della situazione. Molti prigionieri dell’Estadio Nacional furono spostati nei seminterrato e costretti a rimanere in silenzio. Altri restarono sulle tribune, ma non furono “notati” dagli ispettori della FIFA: «Volevamo urlare e farci vedere», ha detto uno di loro, «ma sembravano interessati solo alle condizioni dell’erba». La FIFA non trovò nulla da obiettare e disse che l’incontro si poteva svolgere regolarmente: la Nazionale dell’Unione Sovietica si rifiutò però di andare a giocare in quello stadio. Alla Nazionale cilena, che aveva pareggiato a Mosca, serviva un gol per qualificarsi ai Mondiali: lo segnò in una farsesca partita senza avversari.
Nel 1976 un altro evento sportivo fece molto parlare del Cile di Pinochet: alcuni tennisti italiani – tra loro c’era anche Adriano Panatta – si trovavano in Cile per giocare la finale di Coppa Davis, la più importante competizione di tennis per squadre nazionali: nella partita decisiva Panatta e il suo compagno di doppio, Paolo Bertolucci, scelsero di indossare delle magliette rosse, come segno di protesta nei confronti di Pinochet. L’Italia vinse la partita e anche quell’edizione di Coppa Davis. La storia è raccontata in La maglietta rossa, un documentario realizzato nel 2009 da Mimmo Calopresti. Panatta, in un’intervista di presentazione del documentario, ha parlato della vicenda:
“Al mattino, dopo l’allenamento, dico a Bertolucci: ‘Paolo oggi ci mettiamo le magliette rosse’. E lui, di getto: ‘Ma sei matto, qui ci arrestano o ci fucilano’. Insisto: ‘Dai, non lo vedi che siamo super-protetti?’. Replica: ‘No Adrià, lasciamo perdere’. Segue una animata discussione in romanesco che non ripeterò. Lo prendo per stanchezza: ‘E fammi fare questa provocazione’. Cede, brontolando ancora. Il doppio lo vinciamo in quattro set, Fillol e Cornejo indossano polo bianche ‘Adidas’ e calzoncini celesti. Io e Paolo, ‘Fila’ rosso fuoco e calzoncini bianchi. Credo che i militari sudamericani non furono felici delle nostre magliette rosse: seppi poi che le autorità cilene avevano inviato una specie di nota di protesta al nostro governo tramite l’ambasciata. Naturalmente, rifarei tutto”.
Negli anni successivi la dittatura di Pinochet continuò a usare lo stadio per eventi sportivi. Il regime militare durò fino al 1988, quando Pinochet decise mettere ai voti un suo nuovo mandato presidenziale per i successivi otto anni, convinto di vincerlo. Come racconta il film del 2012 No: i giorni dell’arcobaleno, quella votazione fu vinta dai sostenitori del “no”, quelli che si opponevano a Pinochet. In accordo con la Costituzione cilena, furono convocate delle elezioni libere che si svolsero l’anno successivo. Pinochet rimase in Cile a capo delle forze armate fino al 1998 e poi fu nominato senatore a vita, godendo così dell’immunità parlamentare. Il Cile accelerò il percorso verso il ritorno alla democrazia, che avrebbe raggiunto pienamente da lì a poco.
Nel 1998 il giudice spagnolo Baltasar Garzón emise contro Pinochet un mandato di cattura internazionale. Pinochet venne accusato di genocidio, terrorismo e tortura. Fu arrestato a Londra dove si trovava per farsi curare, ma non venne mai condannato. Il 2 marzo del 2000 il ministro dell’Interno britannico Jack Straw decise di liberarlo e di farlo tornare in patria, dove Pinochet riuscì ripetutamente a evitare qualsiasi processo a suo carico e dove morì per un attacco di cuore il 10 dicembre del 2006, a 91 anni. La storia dell’Estadio Nacional è stata raccontata da un documentario omonimo, realizzato nel 2002 da Carmen Luz Parot.