Siete sicuri di sapere cosa sono gli OGM?
Le risposte date a questa domanda sono quasi sempre sbagliate, come spiega il nuovo libro di Beatrice Mautino e Dario Bressanini pubblicato da Rizzoli
Rizzoli ha da poco pubblicato Contro natura, un saggio scritto da Beatrice Mautino, biotecnologa e giornalista, e Dario Bressanini, chimico e docente universitario, che cerca di fare chiarezza in modo scientifico sul cibo manipolato e modificato, geneticamente o meno, e la paura sempre più diffusa che ne deriva. Gli autori trattano molti argomenti, dalla presunta dannosità del glutine alla «pasta radioattiva» degli anni Duemila, dagli OGM alle carote viola.
Beatrice Mautino è, tra le altre cose, responsabile del programma delle conferenze del Festival della Scienza di Genova e cura il blog I divagatori scientifici. Bressanini collabora con la rivista Le Scienze dove tiene la rubrica mensile Pentole e provette e il blog Scienza in cucina, dove parla di cibo e gastronomia con un approccio scientifico.
Di seguito, il settimo capitolo del libro, dedicato agli OGM, uno degli argomenti più complessi e discussi quando si parla di cibo.
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«Rigore è quando arbitro fischia» diceva spesso Vujadin Boškov, l’allenatore quasi leggendario della Sampdoria che l’ha portata allo scudetto. È diventata subito un tormentone e la citiamo qui perché in qualche modo racchiude in poche parole il senso della regolamentazione della UE, e di altri Paesi, verso gli organismi geneticamente modificati.
Capita spesso all’autore di tenere conferenze divulgative sul tema «Scienza e cibo». Anche in quei casi dove la serata è più strettamente dedicata alla cucina e alla gastronomia, e si è esplorata la chimica del pesto o la termodinamica del pan di Spagna, alla fine c’è sempre qualcuno che dopo aver alzato la mano chiede: «Ma… e gli OGM?». È un segnale che l’argomento interessa molto, e infatti gli incontri dove ci chiedono di trattare esplicitamente questo argomento sono sempre popolati di persone curiose e attente che rimangono fino alla fine, con la sessione di domande che a volte dura più della conferenza stessa.
Un giochino che l’autore a volte fa all’inizio della conferenza è chiedere al pubblico: «Che cos’è un OGM?». Si ottengono risposte varie, quasi sempre più o meno sbagliate, ma che sono utili per capire qual è l’immaginario che questi organismi generano, perché il grado di accettabilità sociale degli OGM dipende molto più da quello che pensiamo che siano piuttosto che da quello che realmente sono.
Tra le risposte ricorrenti troviamo: «Sono piante che hanno subìto una manipolazione genetica», oppure «Piante che hanno dei geni di un’altra specie», ma anche «Piante sterili che resistono ai pesticidi» o «Servono per la fame nel mondo». Nessuna di queste risposte è corretta, anche se alcuni OGM possono ricadere in queste categorie: per esempio, alcuni hanno geni che sono stati prelevati da un’altra specie, ma non necessariamente, come nel caso della soia alto-oleico. Allo stesso tempo, il grano tenero possiede indubbiamente i geni di altre specie, come vi abbiamo raccontato, ma non è un OGM. Che dire poi della risposta che li classifica rispetto a una «manipolazione genetica»? A parte l’ovvio senso peggiorativo con cui si sostituisce «manipolati» a «modificati», ormai dovreste aver compreso che tutte le specie coltivate hanno avuto il loro DNA modificato, più o meno drasticamente, e che le modifiche genetiche le generiamo appositamente per ottenere piante con caratteristiche desiderate.
Ma insomma, che cos’è un OGM? «OGM è quando la legge dice che è OGM» direbbe il Boškov delle biotecnologie. In altre parole, non esiste un modo per classificare in modo preciso le piante in OGM e non-OGM dal punto di vista biologico e in base solo alle loro caratteristiche. Ogni pianta, così come ogni batterio, ogni fungo, ogni animale, fa storia a sé. Certamente si possono trovare alcune caratteristiche comuni ad alcuni OGM. Per esempio, alcuni hanno geni provenienti da altre specie, altri resistono ai diserbanti. Ma come vi abbiamo spiegato, non solo questa non è una condizione di tutti gli OGM, ma vi ricadono anche piante che OGM non sono.
Serve un arbitro che fischi, e questo arbitro si chiama «Direttiva 2001/18/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 12 marzo 2001 sull’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati».
L’articolo 2 definisce, per la legislazione dell’Unione Europea, che cosa si deve intendere per organismo geneticamente modificato:
Un organismo, diverso da un essere umano, il cui materiale genetico è stato modificato in modo diverso da quanto avviene in natura con l’accoppiamento e/o la ricombinazione genetica naturale.
La definizione è solo apparentemente chiara. Che cosa si intende per «ricombinazione genetica naturale»? Ovviamente un normale accoppiamento o incrocio sono ricombinazioni genetiche che avvengono in natura. Ma ve ne sono altre, però. La fusione di genomi, che ha generato molti dei grani che mangiamo, è un’altra. Esistono poi casi nei quali pezzi di cromosomi, o anche una manciata di geni, saltano da una specie all’altra, tramite alcuni batteri. Insomma, serve come minimo un elenco. E infatti, subito dopo, l’articolo precisa che «una modificazione genetica è ottenuta almeno mediante l’impiego delle tecniche elencate»:
1) tecniche di ricombinazione dell’acido nucleico che comportano la formazione di nuove combinazioni di materiale genetico mediante inserimento in un virus, un plasmide batterico o qualsiasi altro vettore, di molecole di acido nucleico prodotte con qualsiasi mezzo all’esterno di un organismo, nonché la loro incorporazione in un organismo ospite nel quale non compaiono per natura, ma nel quale possono replicarsi in maniera continua;
2) tecniche che comportano l’introduzione diretta in un organismo di materiale ereditabile preparato al suo esterno, tra cui la microiniezione, la macroiniezione e il microincapsulamento;
3) fusione cellulare (inclusa la fusione di protoplasti) o tecniche di ibridazione per la costruzione di cellule vive, che presentano nuove combinazioni di materiale genetico ereditabile, mediante la fusione di due o più cellule, utilizzando metodi non naturali.
Sempre nell’articolo 2 però, per legge si stabilisce che alcune tecniche non danno origine a modificazioni genetiche. Queste tecniche sono:
1) fecondazione in vitro;
2) processi naturali, quali la coniugazione, la trasduzione e la trasformazione;
3) induzione della poliploidia
La poliploidia è quella condizione per cui nelle cellule sono presenti più di due copie di cromosomi, come accade per i triploidi, i tetraploidi, gli esaploidi e così via. Ecco quindi che per legge salviamo i frumenti tetraploidi come il duro e gli esaploidi come il tenero, altrimenti avremmo dovuto scrivere su ogni sacchetto del pane «contiene OGM». Ma allo stesso tempo esentiamo dalla classificazione, e dagli oneri di regolamentazione, tutti quegli organismi in cui il numero di cromosomi è stato alterato tramite poliploidia. Questa tecnica si utilizza spesso, per esempio, per produrre frutta e verdura senza semi perché i triploidi sono normalmente sterili. Ovviamente è una tecnica che produce delle modifiche genetiche, ma l’arbitro in questo caso non fischia.
La scelta legislativa di definire una classe di organismi in base al modo in cui sono stati ottenuti e non in base alle loro caratteristiche, che alla fine sono le uniche cose che ci interessano quando li dobbiamo coltivare e mangiare, è a nostro parere la radice di tutti i mali, perché ha dato luogo a una legislazione irrazionale e a tratti perversa che considera e regolamenta prodotti con caratteristiche simili in modo diverso.
Poiché l’agricoltura stessa è una storia di modifiche genetiche, è indispensabile un arbitro che, più o meno arbitrariamente, decida che cosa lo è dal punto di vista legale. «Fatta la legge trovato l’inganno» dice il proverbio, e infatti puntuali arrivano le deroghe, già nell’articolo successivo.
La presente direttiva non si applica agli organismi ottenuti con:
1) la mutagenesi;
2) la fusione cellulare (inclusa la fusione di protoplasti) di cellule vegetali di organismi che possono scambiare materiale genetico anche con metodi di riproduzione tradizionali.
Eccola qui la mutagenesi! Ed ecco perché, nonostante per definizione si ottenga un gene modificato (altrimenti che mutagenesi sarebbe?), per la legge non lo è, e un organismo mutato, sempre per legge, non è considerato «geneticamente modificato».
Il perché di questa scelta legislativa è abbastanza ovvio: avendo basato la direttiva sul concetto sfumato di modificazione genetica, senza deroghe avremmo avuto migliaia di piante già esistenti e coltivate, come il grano Creso in Italia, bollate come OGM. Questo però permette anche di ottenere alcune piante, sfruttando la mutagenesi (o la fusione cellulare, inclusa la fusione di protoplasti), che hanno le stesse caratteristiche di alcuni OGM, come la resistenza a particolari diserbanti o il contenuto di acidi grassi alterato.
Sono migliaia le piante mutate per via chimica o con radiazioni, e sono persino usate dagli agricoltori biologici. Se le vicende fossero andate diversamente, ora gli agricoltori biologici coltiverebbero forse piante geneticamente modificate che non hanno bisogno di pesticidi, neppure quelli naturali ammessi nelle coltivazioni biologiche, con un gran vantaggio per l’ambiente. Ma rigore è quando arbitro fischia.
Vedete che una domanda apparentemente semplice come «Che cos’è un OGM?» richiede una risposta complessa basata alla fin fine su una distinzione abbastanza arbitraria, proprio perché gli OGM non sono un gruppo omogeneo dal punto di vista biologico e andrebbero quindi valutati caso per caso.
Un modo a nostro parere più razionale e sistematico di affrontare la regolamentazione di piante con caratteristiche «innovative» sarebbe stato quello, appunto, di valutare queste caratteristiche, una per una. Se una pianta per esempio produce una tossina per alcuni parassiti, interessa relativamente poco sapere come è stata prodotta quella pianta. Interessa molto di più invece sapere se quella nuova tossina può essere dannosa per l’organismo umano, oppure per alcuni animali che non siano quei parassiti per cui è stata pensata, o per l’ambiente.
La scelta di regolamentare per legge solo alcuni tipi di modificazioni genetiche, e in particolare quelle che si possono ottenere dalla cosiddetta «ingegneria genetica», e non altre nasce anche dalla paura che queste tecniche così potenti possano sfuggire a un controllo politico e sociale.
Un documento della Commissione europea è esplicito:
Le modificazioni genetiche, conosciute anche come «ingegneria genetica» o «tecnologia del DNA ricombinante» sono state applicate per la prima volta negli anni Settanta. È uno dei metodi più nuovi per introdurre nuove caratteristiche in microrganismi, piante e animali. A differenza di altri metodi di miglioramento genetico, l’applicazione di queste tecnologie è strettamente regolamentata. Con la sua potentissima capacità di tagliare, trasferire e ricucire pezzi di DNA anche tra organismi diversi, la tecnologia del DNA ricombinante ha generato enormi entusiasmi ma anche altrettante paure sin da quando sono stati scoperti gli enzimi che hanno permesso questo copia e incolla genetico. Dopo aver imparato a leggere il «programma della vita» i biologi erano in grado di scriverne direttamente le istruzioni. Questo non poteva non generare timori, sia nel comune cittadino sia nello stesso ambiente scientifico.
La conferenza di Asilomar
Nel 1977 a Washington in un convegno dedicato al DNA ricombinante si presentarono gruppi di vivaci oppositori, con cartelli, parole grosse, tentativi di bloccare fisicamente il convegno e accuse di voler replicare il programma hitleriano di selezione genetica. Tra i contestatori c’era chi sosteneva che la possibilità di modificare il DNA avrebbe potuto alterare in modo imprevedibile l’evoluzione umana o l’ambiente che ci circonda, o addirittura portare alla creazione di nuovi organismi patogeni. Cosa certamente possibile.
In realtà in una riunione del febbraio 1975 ad Asilomar, in California, alcuni scienziati si erano già preoccupati di suggerire linee guida di sicurezza riguardanti gli esperimenti sul DNA ricombinante, anche allo scopo di rassicurare il pubblico mostrando come i possibili rischi erano presi molto sul serio. Rischi che peraltro nessuno era ancora in grado di quantificare con precisione. Le linee guida sono poi state utilizzate dal National Institute of Health (NIH) degli Stati Uniti per elaborare una serie di regolamenti ufficiali.
La possibilità di modificare forme di vita e, potenzialmente, crearne di nuove aveva suscitato non poche preoccupazioni anche nel mondo scientifico, tanto è vero che nei due anni precedenti la conferenza di Asilomar gli scienziati che si occupavano di DNA ricombinante avevano aderito a una moratoria volontaria interrompendo ogni genere di esperimenti, in attesa di chiarire meglio gli eventuali rischi e di avere linee guida chiare su come procedere.
Ad Asilomar si cercò di illustrare quali potessero essere, per ogni esperimento immaginabile all’epoca, i pericoli per l’ambiente e per la salute pubblica, oltre che per gli stessi ricercatori coinvolti, questo pur ammettendo di non poter prevedere con certezza ogni possibile conseguenza.
Nella maggior parte dei casi furono suggerite misure di contenimento adeguate e contromisure da attuare per prevenire possibili problemi. Talvolta si chiese di proibire esperimenti considerati troppo pericolosi, per esempio quelli che coinvolgevano batteri altamente patogeni.
Negli anni successivi, man mano che aumentava l’esperienza con le nuove biotecnologie e si accumulavano ulteriori conoscenze scientifiche sui possibili rischi, vennero ridotte o eliminate molte restrizioni. Ricorda Paul Berg, organizzatore della conferenza e premio Nobel nel 1980 per le sue ricerche: «Abbiamo sovrastimato i rischi, ma non avevamo dati a disposizione su cui basare le nostre decisioni, e ci sembrò sensato optare per un approccio prudente».
La conferenza di Asilomar è stata una pietra miliare nella storia del rapporto tra biotecnologi e società civile, perché ha dimostrato esplicitamente che i biotecnologi hanno una «coscienza sociale» e si preoccupano delle possibili implicazioni ambientali, sociali e sanitarie delle proprie ricerche. Emergeva così un’immagine del ricercatore lontana mille miglia dallo stereotipo − caro a molti romanzi di fantascienza o a film come Il mostro di Frankenstein e La mosca − dello «scienziato pazzo» che, chiuso nel suo laboratorio, fa esperimenti azzardati senza alcun riguardo per le possibili conseguenze.
Lo scienziato tornava a essere un individuo in carne e ossa, con le sue perplessità e i suoi dubbi, ma allo stesso tempo appassionato del suo lavoro e determinato a proseguire le ricerche intraprese, perché convinto che possano avere ricadute importanti per la società.
Non tutti però furono soddisfatti dei risultati della conferenza di Asilomar. In particolare alcuni attivisti ambientalisti non accettavano il principio che fossero gli scienziati stessi a definire un codice di autoregolamentazione. Tra costoro divenne in seguito famoso come «nemico» delle biotecnologie Jeremy Rifkin, il quale addirittura chiese − senza ottenerlo − un referendum nazionale sulla materia.
A posteriori, quarant’anni più tardi, possiamo dire che, per quel che riguarda la ricerca nelle biotecnologie applicate alla salute, quella «battaglia» fu vinta dagli scienziati. Sicuramente giocò a favore il loro atteggiamento: la moratoria volontaria e le linee guida molto rigide per la ricerca ebbero l’effetto di ridurre la tensione con la società civile e rassicurare in parte il pubblico. Indubbiamente però un grosso aiuto per l’accettazione di queste nuove tecnologie venne dai rapidi successi in campo medico, che cominciarono ad arrivare già alla fine degli anni Settanta, come quello dell’insulina umana, prodotta da batteri geneticamente modificati già nel 1978 e ora usata dai diabetici di tutto il mondo.
Sarebbe stato difficile per gli oppositori come Jeremy Rifkin continuare una battaglia contro le biotecnologie a scopo medico. Ormai era sotto gli occhi di tutti che i pericoli eventuali inizialmente erano stati sovrastimati e che comunque, posto che in qualsiasi attività il rischio non può mai essere ridotto a zero, i benefici concreti superavano di gran lunga i possibili rischi.
Se la battaglia nel campo delle biotecnologie mediche è stata vinta dagli scienziati, quella delle biotecnologie agrarie e per l’alimentazione è tuttora in corso, altrimenti non avremmo scritto questo libro. Tuttavia, una legislazione che regolamenti una tecnologia esistente corre il pericolo di diventare obsoleta rapidamente, nel momento in cui vengono sviluppate nuove tecniche per ottenere piante con caratteristiche nuove, che però sfuggono alla legislazione esistente. Queste tecniche di modifica genetica che sfuggono alle regolamentazioni non sono solo la mutagenesi chimica e per radiazioni di cui vi abbiamo raccontato le gesta. Quella ormai è una cariatide, un pezzo da museo, anche se sporadicamente ancora utilizzata. Tecniche ben più potenti si affacciano all’orizzonte, come vedremo.
Una questione di etichette
Oltre alle restrizioni sulla coltivazione e la messa in commercio, la legislazione europea prevede che ogni prodotto in commercio contenente un OGM lo debba segnalare in etichetta. Gli autori, malati di etichettologia, non hanno alcuna obiezione all’etichettatura dei prodotti contenenti OGM. È una questione di scelta del consumatore, si dirà. È indubbio però che questo tipo di segnalazione, che non a caso avrete moltissima difficoltà a scovare in un supermercato, abbia come effetto collaterale quello di mettere un bollo quasi infamante su quel prodotto, vista la reputazione degli organismi geneticamente modificati. Negli Stati Uniti infuria in questi anni la battaglia per rendere obbligatoria, proprio come qui in Europa, l’etichettatura dei prodotti contenenti OGM. Eh sì, il consumatore americano non sempre sa di consumare OGM, e gli oppositori pensano, a ragione, che una strategia efficace per limitarne la diffusione sia quella di indicarlo in etichetta.
Dal punto di vista psicologico è ovvio che una segnalazione di questo genere sia percepita, almeno da una fetta della popolazione, come un potenziale segnale di pericolo. «Se mi segnalano che questi OGM sono nel prodotto, forse ne devo diffidare.» Ovviamente le multinazionali che producono OGM e altre aziende agroalimentari sono contrarie a questa proposta legislativa, sostenendo che non vi sono motivazioni scientifiche per segnalare in etichetta la presenza, per esempio, di soia OGM invece che soia convenzionale, dato che se è stato autorizzato alla coltivazione e al consumo, un OGM non pone più pericoli della sua controparte non modificata. Non è quindi, sostengono gli oppositori all’etichettatura, una questione sanitaria. Non è come scrivere «contiene lattosio» che se uno è intollerante almeno lo evita.
«Volete imporre l’etichettatura per infamare i prodotti OGM, perché è ovvio che qualsiasi scritta verrebbe percepita un po’ come “nuoce gravemente alla salute” per i pacchetti di sigarette.»
«È una questione di libertà di scelta del consumatore» ribattono i favorevoli all’etichettatura. «I consumatori hanno il diritto di sapere se mangiano OGM o meno.»
È difficile ribattere a una questione di principio come «il diritto di scelta», e come vi abbiamo già detto, noi siamo favorevoli a etichette che ci diano informazioni veritiere su un cibo, che non sia solo il contenuto nutrizionale.
Ma proviamo a fare un passo in più. A noi piacerebbe molto anche avere scritto sull’etichetta: «Pasta contenente grano ottenuto per mutagenesi con raggi X» o «Olio di semi da girasoli prodotti per mutazione chimica». Perché no? Perché limitare il «diritto di scelta del consumatore»? Posto che né nel caso dei girasoli né in quello degli OGM approvati esiste un problema di tipo sanitario, riuscite a trovare una motivazione razionale per cui è sensato esentare dall’etichettatura i prodotti da mutazione genetica? Noi non siamo riusciti a trovarla. Non abbiamo problemi di principio con gli OGM, quindi neppure con i vegetali mutati. Ma dato che queste piante si utilizzano anche in agricoltura biologica, per esempio, forse il consumatore che è contrario per motivi suoi alle modifiche genetiche avrebbe piacere di trovare scritta questa informazione. Per avere libertà di scelta. E basterebbe una piccolissima modifica alla legislazione per ottenere questo. Giusto l’abolizione della possibilità, concessa alle mutazioni, di «sfuggire» alla direttiva.
Un’obiezione diffusa che si fa agli OGM è: «Va bene, ma cosa succede a lungo termine?». Apparentemente è un’obiezione sensata. Si potrebbe applicare anche alle mutazioni? Certamente. Anzi, ancora di più. Dopo tutto quando si inserisce un gene nel DNA di una pianta sappiamo quale proteina produrrà e possiamo ovviamente fare dei controlli sulle piante trasformate. La maggior parte degli scienziati che lavorano nel campo sostengono che se non si fanno studi a lunghissimo termine su questi prodotti, diciamo dieci anni, è solo perché non vi è la plausibilità biologica che possano fare male, visto che la pianta non è sostanzialmente cambiata da quella di partenza. E, infatti, tutti gli studi condotti seriamente da svariati gruppi di ricerca non hanno fatto altro che confermare questo dato. Ma, come dicevamo sopra, è legittimo chiedere più controlli, anche a lungo o lunghissimo termine.
A questo punto, però, vi chiediamo se pensate che questi stessi controlli debbano essere obbligatori anche per le altre varietà ottenute per mutazione diretta o indiretta.
I vostri autori sognano il Canada. No, non parliamo di orsi e sciroppo d’acero, ma di una legislazione in materia a nostro avviso molto più razionale: tutti i cosiddetti «novel foods», i «nuovi cibi», alimenti che per qualche motivo hanno una composizione sostanzialmente diversa da quelli a cui siamo abituati, devono essere autorizzati, indipendentemente dall’origine. Che siano modificati attraverso mutagenesi chimica, per radiazioni o per trasferimento di geni con l’ingegneria genetica poco importa. Così il Canada ha approvato la soia Plenish®, ma allo stesso modo ha approvato una mela, la Artic®.
Le istituzioni della UE hanno investito, dal 1982 al 2012, più di 300 milioni di euro in ricerche sulla sicurezza degli OGM, finanziando centinaia di gruppi di ricerca pubblici, in laboratori e università. Il rapporto finale che riassume queste ricerche è esplicito:
La conclusione principale che si può trarre dagli sforzi di più di 130 progetti di ricerca, su un periodo di 25 anni e che ha coinvolto più di 500 gruppi di ricercatori indipendenti, è che le biotecnologie e in particolare gli OGM non sono, di per sé, più rischiose delle tecnologie convenzionali di breeding delle piante.
E se non lo sono, perché dovrebbero essere trattate diversamente?