La storia segreta del SEALs Team Six
Il New York Times ha pubblicato un'inchiesta sull'unità d'élite della Marina americana che ha ucciso Osama bin Laden e di cui non si sa praticamente niente
Poco dopo la mezzanotte del 27 dicembre 2009 alcune decine di militari americani e soldati afghani addestrati dalla CIA scesero da un gruppo di elicotteri a pochi chilometri da Ghazi Khan, un paese sulle montagne sopra la valle del fiume Kunar, a poca distanza dal confine tra Afghanistan e Pakistan. Il gruppo era a caccia di un comandante anziano dei talebani, i ribelli islamisti che da anni combattono contro il governo afghano e contro gli Stati Uniti. Il gruppo arrivò a Ghazi Khan mentre era ancora buio e quando se ne andò dieci persone erano state uccise. Dopo la missione si scoprì che quella notte nessun comandante talebano si trovava nel villaggio e che otto delle persone uccise erano studenti iscritti alle scuole locali.
La storia di Ghazi Khan è solo una delle molte che riguardano il SEALs Team Six, un’unità segreta della Marina americana a cui il New York Times ha dedicato un lungo e dettagliato articolo. Racconta anche molti problemi a cui deve far fronte questo gruppo di uomini scelti: le missioni segrete insieme agli uomini della CIA, la caccia ai terroristi ricercati, gli incidenti, gli errori, l’uccisione di civili e infine la copertura che viene garantita ai membri dell’unità. Nessun militare americano è stato indagato o processato per le uccisioni di Ghazi Khan. Degli uomini che hanno preso parte all’operazione non si conoscono nemmeno i nomi.
In realtà non si conosce il nome di quasi nessuno degli uomini appartenenti al Team Six, esclusi quei pochi che hanno detto di averne fatto parte dopo esserne usciti. L’unità è diventata famosa nel mondo quando nel 2011 entrò segretamente in Pakistan e uccise Osama bin Laden nella sua residenza di Abbottabad. Oggi è probabilmente una delle unità militari più celebri al mondo. È un fatto bizzarro, considerato che la sua esistenza non è ufficialmente riconosciuta dall’amministrazione americana. Il Team Six è identificato soltanto con la sigla DEVGRU, un acronimo che indica il distaccamento della Marina militare degli Stati Uniti che opera agli ordini del JSCOM, il comando delle operazioni speciali incaricato di eliminare le cellule terroristiche in tutto il mondo. Ma l’esistenza del Team Six non è relegata a Hollywood o alle speculazioni dei teorici del complotto. Nel corso degli anni molti “operatori” – il termine con cui si identificano i soldati che partecipano alle missioni di combattimento – ufficiali e altro personale militare ne hanno ammesso l’esistenza e hanno parlato delle loro esperienze dentro l’unità. Di recente due ex membri hanno pubblicato libri sulle loro esperienze e in particolare sulla missione che ha portato all’uccisione di bin Laden. Altri hanno partecipato alla promozione di film o videogiochi, spesso procurandosi accuse ufficiali di aver rivelato informazioni sensibili. Molti sono stati intervistati dal New York Times per realizzare l’inchiesta pubblicata lo scorso 6 giugno.
Che cos’è il Team Six
Il Team Six riunisce alcuni dei migliori membri di un altro corpo speciale, i Navy SEALs. I “normali” SEALs – che in gergo militare vengono chiamati “white” o “vanilla” – sono il corpo speciale della Marina degli Stati Uniti, una formazione addestrata a compiere particolari operazioni, come infiltrarsi sulle spiagge nemiche prima dello sbarco delle forze principali o distruggere obiettivi sensibili dietro le linee nemiche. Dopo diversi anni passati nei SEALs, un operatore può chiedere di essere trasferito nell’élite dell’élite: il Team Six. Non esistono documenti ufficiali pubblici sull’unità, ma secondo il New York Times il Team Six è composto da circa 300 operatori e 1.500 uomini del personale di supporto (ufficiali, armieri, esperti di logistica o di esplosivi).
I SEALs hanno una fama di “teste calde” indisciplinate che risale quasi alla loro formazione, negli anni Sessanta. Il New York Times racconta di quando un ammiraglio venne portato a visitare un gruppo di SEALs che si stavano addestrando a bordo di una nave da crociera. L’ammiraglio venne accompagnato in un bar della nave e quando gli fu aperta le porta fu come se di colpo si fosse travato nel film “I pirati dei Caraibi”. I SEALs avevano capelli e barbe lunghe e incolte, orecchini e un aspetto decisamente poco militare. «E questi tizi dovrebbero far parte della mia Marina?», disse l’ammiraglio scandalizzato. I SEALs hanno una lunga storia di risse, incidenti d’auto ed episodi di ubriachezza durante i loro periodi di addestramento e riposo negli Stati Uniti, tutti episodi in genere insabbiati dalle autorità militari, scrive il New York Times. Negli ultimi anni le cose sono un po’ cambiate e oggi gli operatori SEALs sono in genere più anziani, maturi e disciplinati. Ma gli uomini dell’unità hanno mantenuto la fama di spacconi e teste calde, soprattutto a confronto del loro corrispettivo dell’esercito: la Delta Force, famosa per la sua disciplina e per seguire più scrupolosamente i regolamenti militari (è stata questa unità ad aver compiuto i recenti raid in Siria, come il fallito tentativo di liberare il giornalista Steven Sotloff).
Gli incidenti
Gran parte dell’articolo del New York Times è dedicato a raccontare una serie di episodi in cui, come durante la strage di Ghazi Khan, l’atteggiamento spericolato del Team Six ha portato a compiere azioni ai limiti della legalità. Un ex ufficiale di alto rango che ha preferito rimanere anonimo ha detto: «Se credo che cose spiacevoli siano accadute? Di sicuro. Se credo che siano state uccise più persone di quante avrebbero dovuto essere uccise? Di sicuro».
L’unità è stata impiegata soprattutto in Afghanistan dove cominciò a combattere nel 2001, quando dopo l’11 settembre gli Stati Uniti si impegnarono a rimuove il regime dei talebani con l’aiuto dell’Alleanza del Nord, un gruppo di milizie locali. All’inizio i SEALs furono schierati in maniera militarmente “tradizionale” per affrontare e sconfiggere le truppe dei talebani in una serie di scontri diretti. Il regime crollò in fretta e i talebani fuggirono in Pakistan o si mescolarono alla popolazione locale. Da allora l’unità ha cambiato il suo ruolo e la sua missione, fino a trasformarsi in quella che il New York Times ha definito una «macchina per la caccia all’uomo globale». Armati di fucili d’assalto e pistole silenziate, coltelli e persino tomahawk indiani realizzati dallo stesso armiere che ha lavorato al film “L’Ultimo dei Mohicani” – alcune di queste armi, scrive il New York Times, sono state usate in almeno un caso per uccidere un bersaglio – il Team Six ha portato avanti decine di operazioni di assassinii mirati in tutto il paese.
Il New York Times ha scritto che molto presto cominciarono a esserci più operatori disponibili che obiettivi da colpire. Così dai bersagli di alto livello appartenenti ad al Qaida e agli alti comandanti talebani, il Team Six passò a dare la caccia miliziani di livello intermedio, a quelli di basso livello fino al punto in cui, come ha raccontato un ex operatore: «Davamo la caccia ai banditi di strada». Più operazioni significavano anche più errori e più morti tra i civili. Fin dal 2002 l’ex presidente afghano Amid Karzai era scortato dagli uomini del Team Six, ma mano a mano che le operazioni speciali aumentavano così come gli incidenti e la rabbia della popolazione nei confronti dell’unità, Karzai decise di rinunciare alla loro protezione e divenne uno dei critici più duri dell’unità.
Le altre operazioni
Il Team Six ha spesso condotto le sue operazioni in Afghanistan e Pakistan insieme alla CIA in quello che il New York Times ha definito il “Programma Omega”, un piano studiato per portare avanti operazioni “negabili” dal governo, cioè che avrebbero potuto imbarazzare l’amministrazione se fosse stato scoperto che vi avevano preso parte unità militari americane. Ma l’unità ha anche compiuto operazioni di spionaggio, spesso senza sparare. In Yemen e Somalia, ad esempio, gli uomini dell’unità sono incaricati di sorvegliare bersagli di alto profilo, installare apparecchi di sorveglianza e non sono autorizzati a sparare se non per colpire bersagli estremamente importanti.
Un’altra attività centrale dell’unità è il recupero degli ostaggi che, scrive il New York Times, ha procurato al Team Six i suoi migliori successi e i suoi più umilianti fallimenti. Nel 2009 gli operatori del Team Six si lanciarono nel mezzo dell’Oceano indiano per salvare Richard Phillips, un capitano di nave sequestrato da alcuni pirati somali. I tre rapitori, chiusi insieme a Phillips in una piccola imbarcazione di salvataggio, furono tutti eliminati nel giro di una frazione di secondo dal fuoco coordinato di tre tiratori scelti dell’unità: è l’episodio raccontato dal film “Captain Phillips”.
Nel 2010 l’unità tentò di salvare Linda Norgrove, una cooperante internazionale di 36 anni ostaggio dei talebani. Durante l’operazione uno dei membri più giovani del gruppo si ritrovò con l’arma inceppata e, preso dal panico, lanciò una granata verso quelli che credeva essere due talebani nascosti in un fosso. Dopo l’operazione si scoprì che in quel fosso era nascosta Norgrove. Inizialmente i SEALs cercarono di coprire l’incidente sostenendo che Norgrove era stata uccisa dai talebani, ma un’inchiesta dimostrò come l’operatore aveva violato i protocolli da utilizzare durante i salvataggi di ostaggi. Il militare fu rimosso dall’unità ma gli venne permesso di rimanere all’interno dei SEALs. Il New York Times non cita alcun caso di operatori del Team Six processati per fatti compiuti in azione.