Le storie delle donne tunisine stuprate durante la dittatura
Una commissione sulle violenze del regime – creata dopo la Primavera araba – sta facendo venir fuori storie terribili: la novità è che le donne hanno iniziato a parlare
Una speciale commissione istituita in Tunisia ha avviato un programma per raccogliere le testimonianze delle persone che hanno subito violenze e abusi durante gli anni delle dittature di Habib Bourguiba e Zine El Abidine Ben Ali, cioè nel periodo compreso tra il primo luglio 1955 e il 2013: l’anno in cui il paese, a seguito della cosiddetta “rivoluzione dei gelsomini” – il primo pezzo della cosiddetta “Primavera araba” – è diventato una repubblica parlamentare. A pochi mesi dall’inizio del programma, più di 12 mila persone hanno raccontato le loro storie. La vera novità di questa iniziativa «estremamente coraggiosa e dolorosa», scrive il New York Times, è che tra le denunce ci siano anche quelle di molte donne.
Il programma è coordinato dalla Commissione per la verità e la dignità, un organo indipendente istituito nel 2013 e composto da 15 membri, che ha l’obiettivo di indagare sulle violazioni dei diritti umani commesse durante le dittature e di risarcire le vittime riconosciute tali. Tra i membri della Commissione due sono rappresentanti delle vittime, due appartengono alle organizzazioni a tutela dei diritti umani, gli altri sono stati scelti dal governo tra medici, giudici, avvocati e esperti in scienze sociali in base a una serie di criteri: neutralità, integrità e indipendenza politica. La presidente è Sihem Bensedrine, giornalista e attivista, che tra le altre cose ha concluso un accordo con la presidenza della Repubblica per ottenere libero accesso agli archivi di Stato.
Delle oltre 12 mila denunce di cittadini e cittadine tunisine che hanno subito torture e violenze, le storie più terribili riguardano le donne.
Tra i paesi a maggioranza islamica, la Tunisia era considerata una specie di eccezione. La parità tra i sessi aveva infatti raggiunto livelli come in nessun altro paese arabo. Habib Bourguiba, che nel 1957 fondò la Repubblica tunisina e ne fu il primo presidente, bandì la poligamia, legalizzò l’aborto e garantì uguaglianza alle donne in caso di divorzio. Ben Ali, che gli succedette, proseguì le politiche paritarie, promuovendo l’istruzione e il lavoro femminili: nel 2004 la percentuale di donne sposate, vedove o divorziate prima dei vent’anni era quasi nulla, contro l’oltre 50 per cento degli anni Sessanta. In Tunisia, inoltre, due terzi degli studenti universitari sono donne (in Egitto le donne sono i due quinti, per capirci). Nonostante questo «c’erano massicce e continue violazioni contro le donne, più di quanto pensassimo», ha spiegato la presidente della Commissione. Sihem Bensedrine ha detto che la situazione della Tunisia di quegli anni era assolutamente paradossale: se da una parte le dittature avevano cercato di portare avanti una lotta a favore dei diritti delle donne nel mondo islamico, dall’altra i loro funzionari violavano questi diritti in modo sistematico utilizzando lo stupro come uno strumento specifico di tortura di genere per reprimere il dissenso.
«Le donne», scrive il New York Times, «venivano torturate esattamente come gli uomini, e in più subivano stupri e violenze sessuali di vario genere. Queste violenze erano sistematiche». In alcuni casi queste donne sono state violentate o torturate nelle loro case, o nelle centrali di polizia, dove venivano trattenute senza alcuna ragione formale o legale ma per il semplice fatto di essere sposate con degli oppositori del regime: spesso venivano utilizzate come strumento per convincere i loro mariti a parlare. In altri casi invece venivano arrestate in quanto attiviste di sinistra o sindacaliste che manifestavano – come gli uomini – contro il regime. Dopo waterboarding, pestaggi e stupri con bastoni e manganelli, molte donne hanno subito aborti e lesioni interne, oltre a conseguenze psicologicamente devastanti.
Il New York Times ha raccolto alcune di queste testimonianze. Hamida Ajengui, per esempio, oggi ha 46 anni, ma ne aveva 21 quando venne arrestata dalla polizia di Tunisi per aver dato supporto a un gruppo oppositori del regime. Venne spogliata, legata e appesa al soffitto di un ufficio del ministero dell’Interno per sedici ore, mentre gli agenti la picchiavano con delle spranghe di ferro. «Ero molto giovane ed ero cresciuta in un ambiente eticamente e moralmente corretto, con persone gentili e tranquille che mi hanno sempre rispettata. Poi all’improvviso mi sono ritrovata addosso questi uomini che mi toglievano i vestiti e che mi hanno lasciata lì, nuda, in mezzo a una stanza». Ajengui racconta di essere svenuta, a causa delle ferite e delle botte, e di essersi risvegliata in una cella in cui un ufficiale di polizia la minacciò di stupro se lei non si fosse decisa a parlare. «In quel momento ho pensato che fosse finita per me. Mi avevano già distrutta ma quella minaccia significava la perdita del mio onore e della mia purezza». Hamida Ajengui è sopravvissuta, ha sposato un attivista e ha quattro figli.
Un’altra storia raccontata alla Commissione ha a che fare soprattutto con il trauma psicologico. Una donna, di cui non è stato diffuso il nome, ha subìto delle violenze a seguito delle quali le è stata diagnosticata una disabilità del 70 per cento. Sono passati 24 anni, viene tuttora ciclicamente ricoverata in cliniche psichiatriche e trascorre la maggior parte delle sue giornate in isolamento. Meherzia Belabed invece venne interrogata dalla polizia nel 1991: all’epoca era al terzo mese di gravidanza. Il poliziotto le diede un pugno nello stomaco e lei perse il bambino. A tutto questo si aggiunge il fatto che molte di queste donne hanno continuato e continuano a vivere negli stessi quartieri dei loro violentatori, senza aver mai potuto raccontare la loro storia per paura di essere rifiutate dalla famiglia e dalla comunità. Molte delle vittime provenivano infatti da famiglie profondamente religiose che considerano la violenza sessuale subita una colpa della donna.