Storie dalla Repubblica Centrafricana
Le racconta sul Corriere il giornalista Michele Farina, che ha visto le conseguenze delle violenze interreligiose ed è stato in un quartiere della capitale Bangui dove i musulmani vivono isolati
Il giornalista del Corriere della Sera Michele Farina ha scritto un reportage dalla Repubblica Centrafricana, stato africano di circa cinque milioni di abitanti a maggioranza cristiana con una percentuale di abitanti musulmani tra il 10 e il 15 per cento. Farina ha raccontato la difficile convivenza tra i fedeli delle due religioni diverse: ha visitato Pk5, quartiere della capitale Bangui dove i musulmani – e una piccola percentuale di cristiani – vivono isolati, senza la possibilità di uscire. Da almeno un paio di anni nel paese sono presenti milizie armate estremiste cristiane chiamate “antibalaka”, e estremiste islamiche, chiamate “seleka”, in lotta tra di loro. Farina ha parlato anche con alcune donne, cristiane e musulmane, che hanno perso i figli per le violenze interreligiose iniziate dopo che nel 2013 il governo del presidente cristiano François Bozizé è stato rovesciato dai ribelli musulmani seleka.
Fatime è musulmana: indossare il velo fuori dal quartiere-prigione di Pk5 significa essere violentata o uccisa. Lucienne è cristiana, vive nel campo profughi affamati di Saint Joseph de Mukassa: per lei un foulard salva la vita. Due donne, due pezzi di stoffa e due religioni a cui nessuno avrebbe badato, fino a un paio di anni fa. Non ora, non più, non da quando questo Paese ha cominciato a dividersi (ad ammazzarsi) tra chiese e moschee.
Se devono allontanarsi dal Pk5 (chilometro cinque), Fatime e l’amica Awa si tolgono il velo: «Ci travestiamo da cristiane» dicono sedute su una stuoia sotto gli alberi della Grande Moschea. Fatime ha perso il marito Younuss e tre figli nello scontro di potere che ha assunto i contorni di una guerra interreligiosa dilaniando il Centrafrica dal 2013. Glieli hanno uccisi davanti agli occhi i miliziani antibalaka (antimachete): «Abbiamo cercato rifugio dai vicini cristiani, ma non ci hanno aperto». Lucienne invece non ha bussato ai vicini musulmani, è scappata da Damara a piedi lungo le piste della transumanza per sfuggire alle bande islamiche dei Seleka (coalizione, in sango): 70 km in tre giorni fino al ghetto di Mukassa dove ancora sopravvive. Racconta di Antoine, diciottenne: «I Seleka volevano decapitarlo». Lei li ha implorati, finché «uno dei capi ha notato che mio figlio aveva al collo il foulard degli scout cattolici. Anche lui aveva giocato con gli scout da ragazzo. Gli ha risparmiato la vita».
I nomi dei gruppi armati entrano nella vita spicciola, avvelenandola al modo dei cadaveri che intasano i pozzi che ong come Oxfam provano a bonificare. «I nostri bambini giocano a Seleka e antibalaka» dice Sophie Bangabingi, 39 anni e 8 figli, in una baracca di tela e lamiera a Mukassa. Divisione che si fa consuetudine lessicale. Le 8 del mattino, riunione alla sede Oxfam, una quarantina di operatori in gran parte locali che stanno per sparpagliarsi (distribuzione d’acqua e kit sanitari, progetti di microcredito, etc). Rosario Iraola, basca, ricorda che «quando si parla sarebbe bene smettere di dividere la popolazione in musulmani e centrafricani». Come se i primi (il 15% circa) non appartenessero a questo luogo da generazioni.
(Continua a leggere sul Corriere.it)