Il jihadismo in Italia, spiegato
Cos'è oggi il terrorismo islamico in Italia e che pericoli possono arrivare dai "barconi" in uno dei pochi grandi paesi del mondo a non aver subìto gravi attentati negli ultimi vent'anni
di Elena Zacchetti – @elenazacchetti
La sera del 19 maggio Digos e Ros dei Carabinieri hanno arrestato a Gaggiano, in provincia di Milano, Abdel Majid Touil, un cittadino marocchino di 22 anni accusato dalla Tunisia di essere coinvolto nell’attentato al Museo del Bardo a Tunisi. Sulla storia di Touil – le sue responsabilità nell’attentato, i suoi spostamenti dentro e fuori dall’Italia, sue eventuali affiliazioni a gruppi estremisti internazionali – non è stata ancora fatta completa chiarezza. Il suo arresto e il fatto che sia arrivato sulle coste italiane “con i barconi” hanno però fatto parlare molto sia i politici che i giornali nazionali del problema del terrorismo jihadista in Italia (alla fine di ottobre, dopo sei mesi al carcere di Opera, Touil è tornato in libertà: i suoi avvocati hanno detto che lui proverà a chiedere asilo politico in Italia).
Chi ha più di trent’anni associa probabilmente il terrorismo di ispirazione islamica in Italia al’Istituto islamico di viale Jenner a Milano, dove tra gli anni Novanta e Duemila la polizia ha arrestato alcuni estremisti con rilevanti legami internazionali. Più di recente si è parlato dei rischi collegati ai cosiddetti “foreign fighters”, cioè le persone andate in Siria a combattere con i ribelli, quasi sempre a fianco di milizie jihadiste tra cui lo Stato Islamico (o ISIS): al di fuori dell’Italia se n’è parlato soprattutto dopo gli attentati di Parigi, visto che più di un attentatore aveva in passato viaggiato in Siria. Tra i “foreign fighters” italiani c’è stato Giuliano Delnevo, cittadino italiano di Genova convertito all’Islam pochi anni fa e ucciso in Siria nel giugno del 2013. In realtà il jihadismo in Italia non si può spiegare con questi pochi casi. Negli ultimi anni diversi esperti italiani soprattutto legati all’ISPI, l’Istituto per gli studi di politica internazionale, hanno studiato e raccontato la questione ribaltando spesso alcuni dei luoghi comuni che più si sentono nei dibattiti politici e a volte sui giornali: per esempio che il jihadismo si sviluppa nella moschee, oppure che i terroristi arrivano sui barconi.
L’Istituto culturale islamico di viale Jenner, il centro del jihad in Italia
La prima cosa da sapere è che il jihadismo in Italia ha cominciato a svilupparsi all’inizio degli anni Novanta: in quel periodo in diverse città italiane, soprattutto al nord, iniziarono a formarsi piccoli gruppi di militanti provenienti dai paesi del Nord Africa (ce n’erano a Como, Gallarate, Varese e Cremona, per esempio). Il centro del jihadismo italiano era l’Istituto culturale islamico di viale Jenner a Milano, che si trova poco distante dalla stazione della metropolitana Maciachini. L’Istituto di viale Jenner, a volte chiamato erroneamente “moschea”, è stato fondato nel 1988 ed è stato guidato soprattutto da imam egiziani e frequentato da estremisti tunisini, algerini e marocchini. Nel corso degli anni Novanta viale Jenner divenne uno degli appoggi logistici più importanti per i volontari provenienti da tutto il mondo che volevano andare a combattere il jihad in Bosnia (uno degli imam dell’Istituto, Anwar Shaaban, divenne poi il capo del Battaglione dei Muhaheddin stranieri che combattevano a fianco dei musulmani bosniaci): divenne così rilevante da essere definito dal dipartimento del Tesoro statunitense «la principale base di al Qaida in Europa».
L’Istituto islamico di viale Jenner si occupava più che altro di smerciare passaporti falsi e organizzare ampi giri di denaro che finivano per finanziare gruppi terroristi in Nord Africa e Medio Oriente. Anche se la priorità non era pianificare attentati in Italia, da viale Jenner passarono alcuni jihadisti importanti: per esempio Sami Ben Khemais Essid e Mehdi Khammoun, due tunisini arrestati nel 2001 con l’accusa di far parte di un gruppo salafita tunisino legato ad al Qaida. I due furono poi espulsi in Tunisia – provvedimento che nel caso di Essid fu il motivo di una condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo – ma furono liberati durante i disordini della Primavera araba. Nell’ottobre del 2012 il settimanale Espresso li riconobbe in un video diffuso online: il video li mostrava a fianco del leader di “Ansar al Sharia Tunisia”, gruppo estremista di ispirazione salafita legato ad al Qaida. Secondo il dipartimento di stato americano Essid era stato addestrato per due anni in Afghanistan come reclutatore per al Qaida.
Da viale Jenner passarono anche alcuni terroristi associati all’attentato del 1993 al World Trade Center e a quello del 1998 contro le ambasciate americane in Tanzania e Kenya. Già nel 1995 la procura di Milano aveva arrestato alcuni dei leader amministrativi e religiosi dell’Istituto. Tra l’ottobre e il novembre del 2001 – dopo l’11 settembre – le autorità italiane arrestarono altri estremisti, tra cui alcuni tunisini che finirono poi detenuti nel carcere di massima sicurezza di Guantánamo, a Cuba. Nell’ottobre 2001, nel periodo degli arresti di Essid e Khammoun, il giornalista Fabrizio Gatti descriveva così sul Corriere della Sera l’edificio che ospitava l’Istituto di viale Jenner:
«Dalla strada non si vede nemmeno. Nessuna cupola, nessun minareto. Bisogna infilarsi sotto il portone con il cartello di un «Garage» e attraversare il cortile. L’ ingresso dell’ Istituto culturale islamico, in viale Jenner 50 a Milano, è a pochi passi, in fondo. […] Una palazzina che a malapena contiene una moschea, gli uffici, le aule per le lezioni, un piccolo negozio di alimentari. Intorno condomini, finestre, balconi si affacciano su uno degli indirizzi diventati tra i più famosi negli uffici dell’Antiterrorismo di mezzo mondo.»
Le inchieste a Milano e i jihadisti legati al Kurdistan iracheno
Nonostante gli arresti di inizio anni Duemila, Milano ha continuato a essere il centro del jihadismo italiano, soprattutto rispetto alle attività di supporto logistico. Stefano Dambruoso – per otto anni sostituto procuratore a Milano, membro del dipartimento antiterrorismo e responsabile di alcune delle indagini più importanti in Italia sull’estremismo jihadista – ha raccontato nel libro “Milano-Baghdad” (scritto con la collaborazione del giornalista Guido Olimpio) diverse cose sulle cellule jihadiste attive in Italia. Nel marzo 2003, per esempio, Dambruoso cominciò a indagare insieme al dirigente della Digos Bruno Megale su un gruppo milanese che reclutava mujaheddin per combattere nel Kurdistan iracheno, dove era attivo al Ansar, un gruppo che si era alleato con al Qaida. Il gruppo milanese faceva parte di una rete di altre piccole cellule: la rete era molto ampia e diffusa in diverse città europee e alcune città italiane più piccole, tra cui Parma. Oltre al reclutamento, si occupava anche del finanziamento delle cellule europee e del gruppo curdo. A gestire gli uomini che venivano mandati in Kurdistan, scrive Dambruoso, era Abu Musab al Zarqawi, il fondatore di al Qaida in Iraq, il gruppo predecessore dello Stato Islamico (o ISIS).
Dambruoso ha scritto nel suo libro: «L’Italia è per al Qaida e altre formazioni come una grande fabbrica di documenti. E i militanti si dedicano a questo compito con l’attenzione riservata alla preparazione di un attacco». Quando nel 2003 gli americani attaccarono l’Iraq, tra gli obiettivi colpiti ci furono i campi di al Ansar nel Kurdistan iracheno. Mesi dopo, racconta Dambruoso:
«I Berretti Verdi e una schiera di giornalisti rastrellano tutto ciò che trovano nelle case distrutte di Al Ansar. Video, materiale cartaceo, schede e sacchi di documenti. Tra questi ne spuntano molti italiani. Sono il regalo della rete presente nel Nord Italia. Sul passaporto, sulla riga “ruolo di rilascio”, compare quasi sempre la stessa dicitura: “Questura di Milano”.»
Il terrorismo “homegrown”
Nel corso degli anni Duemila il jihadismo in Italia ha cominciato a cambiare, anche per i molti arresti compiuti dalle autorità italiane che portarono allo smantellamento di diverse reti. In quegli anni cominciò a diffondersi il terrorismo jihadista “homegrown”, perseguito soprattutto dalla seconda generazione di musulmani immigrati: si tratta di un jihadismo scollegato dalle grandi reti terroristiche internazionali e dalle moschee, e invece legato soprattutto alle comunicazioni su internet. Sul terrorismo “homegrown” ha scritto un libro Lorenzo Vidino: si intitola “Il jihadismo autoctono in Italia: nascita, sviluppo e dinamiche di radicalizzazione”, è stato pubblicato nel 2014 per l’ISPI ed è la cosa più completa che si trova sul jihadismo in Italia negli ultimi dieci anni.
Come spiega bene Vidino, a partire dal 2003 diversi militanti cominciarono a lasciare l’Italia, anche per quello che era successo all’egiziano Abu Omar, imam di viale Jenner. Abu Omar, il cui nome in realtà è Hassan Mustafa Osama Nasr, fu rapito il 7 gennaio 2003 dalla CIA a Milano e trasferito in una prigione egiziana. Della vicenda si parlò molto perché fu un caso di “extraordinary rendition”, cioè un rapimento e detenzione illegale compiuti dagli Stati Uniti con la collaborazione di altri paesi. Il caso di Abu Omar ebbe in Italia un lungo seguito giudiziario che coinvolse anche i vertici dei servizi segreti italiani.
Nella foto: Abu Omar in una foto di sorveglianza scattata dalla CIA a Milano, ritrovata su un computer a casa di un funzionario della CIA a Milano. Secondo gli investigatori italiani, la foto è stata scattata il 14 gennario 2003, un mese prima del rapimento, in via Guerzoni. (Corriere Della Sera)
Alcuni considerano il primo caso di terrorista “homegrown” in Italia quello di Mohammed Game, cittadino libico nato a Bengasi e arrivato in Italia nel 2003. Alle 7:40 della mattina del 12 ottobre 2009 Game si fece esplodere al cancello della caserma di Santa Barbara, alla periferia di Milano: rimase solo ferito, insieme a due soldati. Sul computer di Game furono trovati 185 file sugli scritti di Abu Musab al Suri, uno dei più importanti ideologici del jihadismo globale, noto soprattutto per avere elaborato il concetto di resistenza senza leader (al Suri è molto ripreso anche nell’ideologia dell’ISIS). Nel 2007 nella Relazione annuale presentata dall’intelligence al Parlamento italiano (PDF) si citava il pericolo degli immigrati di seconda generazione e segnalava una cosa nuova:
«Il rischio legato all’improvvisa attivazione operativa di soggetti presenti sul territorio nazionale che, al di fuori di formazioni terroristiche strutturate, elaborino in proprio progetti ostili aderendo al richiamo del jihad globale.»
La Relazione del 2009 parlava anche dei casi di italiani convertiti all’islamismo radicale. Qualche anno fa si parlò molto sui giornali della storia di Barbara Aisha Farina, cittadina italiana nata a Milano e convertita all’Islam nel 1994, quando aveva 22 anni (Aisha è il nome che ha preso dopo la conversione). Farina gestiva vari blog, traduceva in italiano i testi di importanti leader islamisti e pubblicava insieme a un’altra convertita di Bergamo la rivista al-Mujahiddah, “La Combattente”, che veniva distribuita in varie moschee italiane: fu una delle prime donne a indossare il niqab, il velo integrale, organizzò delle proteste per chiedere che le donne potessero indossare l’hijab sulle foto della carta d’identità e affermò pubblicamente di essere in una relazione poligama. Nel 2003 le autorità italiane espulsero suo marito, un imam senegalese: lei lo seguì in Senegal e continua ancora oggi a pubblicare materiale jihadista.
Con il caso di Farina, le autorità italiane cominciarono a occuparsi più stabilmente della diffusione di propaganda jihadista online. Nuove indagini portarono per esempio all’arresto di Mohamed Jarmoune, marocchino residente in Valcamonica arrestato perché sospettato di organizzare un attentato alla sinagoga di Milano, in via Guastalla. Uno dei casi più conosciuti è però quello di Anas el-Abboubi, un giovane di origini marocchine ben integrato e residente in un piccolo paese delle valli a nord di Brescia. Le indagini su Abboubi, scrive Vidino, cominciarono in maniera molto inusuale: nel settembre 2012 Abboubi era andato alla questura di Brescia per chiedere di poter fare una manifestazione contro il film L’innocenza dei musulmani (proteste contro il film furono organizzate in diversi paesi musulmani). Abboubi disse ai poliziotti che intendeva bruciare delle bandiere israeliane e chiese notizie di Jarmoune, verso cui espresse ammirazione. La Digos di Brescia, chiaramente, avviò un’indagine su di lui. Abboubi, che aveva frequentato un istituto tecnico a Brescia, era diventato un rapper piuttosto noto con il nome McKhalif (o Dr. Domino). Tra le altre cose, una volta aveva dato un’intervista a MTV Italia dal titolo: “Nel ritmo di Allah: la storia di Mc Khalifh”, in cui parlava dell’esclusione sociale e del razzismo di cui aveva sofferto fin da piccolo (il video dell’intervista non è più disponibile ma Abboubi compare anche nel mini-documentario trasmesso da MTV, qui sotto).
Dopo il mini-documentario con MTV, la vita di Abboubi cambiò rapidamente. Abboubi divenne un militante islamico radicale, abbandonò il rap, cominciò a indossare lunghe tuniche bianche e smise di frequentare i suoi amici. Cominciò anche a cercare il modo di andare a combattere il jihad in Siria, prendendo contatti via internet. La Digos di Brescia scoprì che Abboubi era entrato in contatto sia con alcuni gruppi jihadisti in Europa, come il noto Sharia4Belgium, sia con Giuliano Delnevo, l’italiano convertito ucciso in Siria mentre combatteva con i ribelli. Abboubi fu arrestato nel giugno del 2013 con l’accusa di preparare degli attentati a Brescia. Nel novembre 2013 la Corte di Cassazione confermò la decisione del tribunale del riesame di scarcerarlo, ma Abboubi aveva già lasciato l’Italia: Vidino, citando vari esperti antiterrorismo in Italia, ha scritto che Abboubi è in Siria e si è unito all’ISIS.
Alcune foto pubblicate in internet da El Abboubi e mostrate dalla Polizia durante una conferenza stampa a Brescia, il 25 marzo 2015. (Foto Spada – LaPresse)
Le storie di Abboubi e di Delnevo dicono molto su cosa è diventato il jihadismo in Italia negli ultimi anni. Entrambi si possono considerare jihadisti autoctoni, quelli individuati oggi dall’intelligence italiana come i più pericolosi. Si radicalizzano su internet, hanno molti contatti con altri gruppi jihadisti europei ma per lo più non appartengono a reti terroristiche organizzate internazionali, almeno fino a che non sono arrivati in Siria. Le loro attività si svolgono prevalentemente fuori dalle moschee. Il caso di Delnevo è significativo: Vidino ha scritto che Delnevo non ha trovato alcun appoggio nelle moschee del genovese, nonostante l’avesse cercato. I motivi sono diversi: uno dei più rilevanti è che coloro che frequentano le moschee, per lo più immigrati di prima generazione, sono molto diffidenti verso i convertiti italiani, che fanno propaganda e si vestono spesso in maniera appariscente rischiando di creare problemi e attirare l’attenzione delle forze dell’ordine. In altri paesi europei queste differenze tra reti terroristiche tradizionali e nuovi jihadisti autoctoni si è ridotta, fino quasi a scomparire: uno sviluppo che le autorità italiane non escludono possa verificarsi in futuro anche in Italia.
Il reclutamento della rete balcanica e gli arresti in Sardegna
Nonostante la diffusione del jihadismo “homegrown”, negli ultimi mesi le autorità italiane hanno smantellato delle presunte reti legate al terrorismo. Il 25 marzo 2015 sono stati arrestati – con l’accusa di arruolamento con finalità di terrorismo internazionale – Alban ed Elvis Elezi, zio e nipote albanesi, in un’operazione coordinata dalla procura di Brescia. Insieme ai due è stato arrestato anche El Mahdi Halili, 20enne italiano di origine marocchina accusato di avere diffuso un documento filo-ISIS in lingua italiana (PDF), molto ripreso e commentato anche dalla stampa nazionale diverse settimane fa. Secondo gli investigatori, Alban ed Elvis Elezi avevano avuto contatti anche con Abboubi, che prima era stato proprio in Albania per avere informazioni su come andare a combattere in Siria. Elvis Elezi è stato scarcerato dal tribunale del riesame di Brescia.
Una grafica mostrata dalla Polizia di Stato sui legami tra Alban ed Elvis Elezi, Halali Helmahoi ed El Abbuobi. (Foto Spada – LaPresse)
Le reti jihadiste che portano ai Balcani sono ancora tra le più presenti e attive in Italia. Più di recente, il 25 maggio 2015, il ministero dell’Interno ha emesso un provvedimento di espulsione per Anass Abu Jaffar, 25enne marocchino residente a Belluno, in Veneto: Jaffar è il fondatore della pagina Facebook “La scienza del Corano”, molto seguita dalla comunità islamica in Italia, e aveva contatti con il musulmano bosniaco Ismar Mesinovic, residente in provincia di Belluno e morto dopo che era andato a combattere in Siria. Sembra che Mesinovic sia stato arruolato da una rete a cui era legato anche l’imam Bilal Bosnic, predicatore radicale di fama internazionale conosciuto anche in Italia perché segnalato per il suo estremismo a Pordenone, Bergamo, Cremona, Roma, Monteroni d’Arbia in provincia di Siena.
Un mese dopo l’arresto di Alban ed Elvis Elezi, il 24 aprile 2015, la Digos di sette province italiane coordinata dall’antiterrorismo e dalla procura di Cagliari ha arrestato 10 persone con diverse accuse legate al terrorismo. In tutto le misure di custodia cautelare erano dirette a 18 persone, tra cui alcune coinvolte nella strage dell’ottobre 2009 al mercato di Peshawar, in Pakistan, in cui rimasero uccise oltre 100 persone. Tra gli arrestati c’è anche Khan Sultan Wali, il capo della comunità islamica di Olbia. Wali, 39 anni, aveva creato una società che lavorava all’interno del cantiere del G8 a La Maddalena, in Sardegna, ed era a capo della comunità pakistana a Olbia. Oltre alle reti balcaniche e pakistane, tra gli addetti ai lavori c’è anche una certa preoccupazione per le reti jihadiste tunisine, vista la vicinanza di alcuni esponenti di “Ansar al Sharia Tunisia” con il territorio italiano (come dimostra il caso di Sami Ben Khemais Essid e Mehdi Khammoun). Infine a novembre di quest’anno c’è stata una grande operazione antiterrorismo in diversi paesi d’Europa, tra cui l’Italia: quattro persone sono state arrestato in Italia – tra Bolzano e Merano, in provincia di Bolzano – con l’accusa di far parte di un’associazione terroristica legata all’ISIS. Il comandante del ROS Giuseppe Governale ha comunque detto che il gruppo non stava preparando attentati in Italia.
Quanto è grave il pericolo del jihadismo?
Nell’ultima relazione sulla sicurezza presentata al Parlamento (PDF), l’intelligence italiana ha ribadito che la minaccia del terrorismo in Europa, e anche in Italia, proviene dall’estremismo “homegrown”, che si sviluppa attraverso “processi di radicalizzazione individuali e invisibili”. Secondo Vidino le persone coinvolte nel jihadismo autoctono sono circa una cinquantina, la maggior parte delle quali vive nelle grandi città del nord, tra cui Milano, Genova e Bologna. Nella relazione si legge:
«Sebbene ad oggi non siano emerse attività o pianificazioni ostili in territorio nazionale riconducibili allo Stato Islamico o ad altre formazioni del jihad globale, la minaccia interessa anche l’Italia, potenziale obiettivo di attacchi pure per la sua valenza simbolica di epicentro della cristianità evocata, di fatto, dai reiterati richiami alla conquista di Roma presenti nella propaganda jihadista.»
La possibilità che le organizzazioni terroristiche internazionali possano usare “i barconi” per mandare i loro uomini in Italia, e da qui in altri paesi d’Europa, è considerata molto improbabile sia dal governo italiano che da diversi esperti che si occupano di terrorismo. Andrea Margelletti, presidente del Centro Studi Internazionali (Ce.S.I.), ha detto in diverse interviste che non ha senso, dal punto di vista di un’organizzazione terroristica, addestrare un terrorista per poi metterlo su un barcone, con il rischio che muoia in un naufragio. È molto più probabile che venga fatto entrare nel paese con un visto turistico.
Della possibilità di usare l’Italia come paese di “transito” se ne sono occupati di recente anche BBC e Guardian, arrivando però a conclusioni molto diverse. BBC ha scritto che l’ISIS sta usando i barconi per infiltrarsi in Italia e poi in Europa: la sua ipotesi è sembrata però poco solida, basata sulla testimonianza di un misterioso consigliere libico già citato da Reuters in passato per le sue attività di contrabbandiere di armi. Il Guardian ha scritto invece che sempre più jihadisti britannici vanno in Siria passando per l’Italia: per evitare i controlli negli aeroporti del Regno Unito usano i barconi che partono dalle coste italiane per arrivare in Libia, e da lì vanno poi in territorio siriano. Saremmo noi a esportare terroristi in Nord Africa, e non il contrario: anche l’ipotesi del Guardian però finora non ha avuto riscontri solidi.
In generale il lavoro dell’antiterrorismo in Italia è considerato molto buono, e l’Italia è rimasto uno dei pochi grandi paesi del mondo a non aver subìto grossi attentati di ispirazione islamica negli ultimi vent’anni. Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila le autorità italiane hanno compiuto diversi arresti che hanno smantellato alcune delle reti terroristiche più importanti nel paese: in quel periodo l’Italia era considerata uno dei centri più rilevanti del jihadismo in Europa (Dambruoso ha scritto che solo un’altra città in Europa ha avuto sul territorio un centro islamico così attivo e vicino ad ambienti terroristici: Londra, con il noto centro islamico di Finsbury Park). Negli anni successivi in Italia c’è stata un’inversione di tendenza rilevante, grazie a quello che è stato definito un “metodo italiano” nel portare avanti le indagini: arrestare un sospetto solo in presenza di un pericolo imminente e indagare su tutti i suoi legami e conoscenze periferiche. Anche le leggi italiane sono state migliorate nel corso degli anni. L’articolo del codice penale italiano che si riferisce ai reati di terrorismo è il 270, che nel 2005 è stato aggiornato in modo che non servisse più solo per punire il terrorismo tradizionale con una struttura gerarchica. Nell’aprile di quest’anno infine il Parlamento ha approvato un nuovo decreto antiterrorismo che tra le altre cose punisce con il carcere i foreign fighters e chi organizza, finanzia e propaganda viaggi che servano per compiere atti terroristici.