Non dite quella parola
Il New York Times chiede in giro se la sopravvalutazione di diverse startup della Silicon Valley possa essere una…
Il New York Times ha dedicato un articolo alla reticenza di descrivere con la parola “bolla” il recente e improvviso successo di alcune società di tecnologia americane come Uber e Airbnb. La reticenza, scrive il New York Times, dipende da un’altra “bolla”, quella che ha coinvolto diverse società legate a Internet nella seconda metà degli anni Novanta: dopo essere cresciute eccessivamente a causa anche della sopravvalutazione degli analisti, molte società fallirono per quella che fu definita la “bolla delle dot com”. Il New York Times ha provato a chiedere se la “bolla” di allora e la situazione attuale possano essere paragonabili, incontrando comprensibilmente molta circospezione nell’utilizzare «la parola che inizia con la B».
Negli ultimi anni diverse società fondate con un budget relativamente ridotto e un ristretto numero di dipendenti – come il servizio di auto con autista privato Uber o il sito per affittare la propria casa Airbnb – sono arrivate ad essere valutate miliardi di dollari, spesso senza ancora avere generato degli utili rilevanti. È una situazione molto simile a quello che accadde all’inizio degli anni Duemila, quando diverse società americane che si occupavano di Internet erano state sopravvalutate dagli analisti e finirono per essere pagate molto più del loro reale valore, chiudendo poco dopo: fu il caso ad esempio del fornitore di server GeoCities, acquistato da Yahoo nel 1999 per 3,57 miliardi di dollari e chiuso nel 2009 dopo anni di declino.
Negli Stati Uniti sono diventate moltissime le società che a pochi anni dalla loro fondazione ottengono una valutazione di miliardi di dollari. Secondo CB Insights, una società che si occupa di analizzare dati sui fondi di investimento americani, pochi anni fa le società valutate più di un miliardo di dollari erano così rare che venivano soprannominate “unicorni”. Il New York Times spiega invece che oggi «ce ne sono 107, un numero sufficientemente alto da aver spinto gli investitori a creare un secondo termine, “decacorno”, per descrivere società valutate più di dieci miliardi di dollari come Uber e la società di consulenza Palantir Technology». Uber è stata fondata nel 2009. Nel dicembre del 2014, durante un nuovo processo di raccolta fondi, è stata valutata 41,2 miliardi di dollari, più del doppio del suo valore stimato solo sei mesi prima. Nel novembre del 2014 è stato stimato che nel 2015 otterrà entrate per dieci miliardi, cifra che però non è ancora sufficiente a renderla sostenibile. Dropbox, il popolare sito che permette di gestire e scambiare file online, è stata fondata nel 2008 e oggi ha un valore stimato attorno a 10 miliardi di dollari. Alcuni hanno già definito questa cifra «senza senso», dato che Dropbox ha un giro di affari annuale di 300-400 milioni di dollari.
Eppure in molti non ritengono che la parola “bolla” vada associata alle attuali società di tecnologia. Anand Sanwal, il fondatore di CB Insights, ha detto per esempio che «al momento c’è un po’ di follia e la gente sta pagando [le quote in alcune società] a un prezzo eccessivo: ma una serie di cattivi investimenti non vogliono dire che ci troviamo in una bolla». George Zachary, socio della storica società di investimenti nel settore tecnologico Charles River Ventures, ha preferito parlare di un periodo di generale «sopravvalutazione e inconsistenza».
Del resto non è nemmeno chiaro cosa sia esattamente una “bolla”: l’economista americano Robert Schiller, che nel 2013 ha vinto il premio Nobel per l’economia per i suoi studi sul mercato azionario, nel suo libro sulle bolle speculative Irrational Exuberance ha ipotizzato che le “bolle” possano essere paragonate a una «epidemia psicologica», in cui molte persone smettono di pensare in maniera razionale e vengono convinte della bontà di una particolare vicenda o trend economico. Lo stesso Schiller in un altro passaggio ha definito le bolle speculative «un fenomeno sociale, come il bere o il fumare troppo». È una definizione che si adatta bene al caso della “bolla” degli eccessivi finanziamenti sul mercato azionario – anche da parte degli investitori comuni – che nel 1929 causarono la Grande Depressione, e di quella dei mutui concessi troppo facilmente a migliaia di persone dalle banche statunitensi – chiamata “bolla immobilare” – che si concluse rapidamente nel 2008. Il New York Times suggerisce che in molti temono che attualmente circoli un eccessivo entusiasmo attorno alle società di tecnologia, e che in pratica per loro sia diventato «troppo facile» accedere a finanziamenti privati.
Secondo la maggior parte delle persone contattate dal New York Times, comunque, non sembra che la situazione attuale sia a rischio di diventare una “bolla”: Sam Altman, presidente della società Y Combinator che si occupa di finanziare start tup, ha detto: «credo che le società attuali non siano valutate in maniera scorretta. Credo invece che una disponibilità troppo elevata di soldi possa rovinare una buona società: e questa è una differenza importante».