Chi sono i rohingya
Appartengono a una delle minoranze più perseguitate al mondo e non hanno nazionalità: in migliaia sono intrappolati da giorni su alcune imbarcazioni nel Mare delle Andamane
In mezzo al Mare delle Andamane migliaia di persone rischiano di morire di sete a bordo di alcune imbarcazioni che nessuno dei paesi dell’area – Malesia, Indonesia e Thailandia – vuole accogliere. Secondo alcune stime sono almeno seimila le persone a bordo delle barche e sono alla deriva da più di dieci giorni, con pochissime scorte di acqua e di cibo. Sono quasi tutti musulmani, molti partiti dalle coste del Bangladesh, ma la maggior parte arrivati dal Myanmar: si chiamano rohingya e appartengono ad una delle minoranze etniche più perseguitate al mondo.
La fuga dei rohingya
I rohingya sono partiti circa dieci giorni fa a bordo di un numero non ancora identificato di imbarcazioni. Dopo essere stati respinti dai porti di Malesia, Indonesia e Thailandia, i trafficanti che guidavano le barche hanno distrutto i motori e se ne sono andati. Alcune di queste imbarcazioni, quasi tutte in pessime condizioni, sono affondate e alcune centinaia di rohingya sono state salvate da un gruppo di pescatori indonesiani e trasportati in un campo di accoglienza di Langsa nella provincia di Aceh, in Indonesia. Altre migliaia, invece, sono ancora in mare. Alcuni elicotteri militari della Thailandia hanno lanciato cibo e acqua alle imbarcazioni, ma la situazione a bordo delle navi è estremamente difficile. Si parla di almeno dieci morti e di persone così disperate che sono costrette a bere la propria urina.
Per molti rohingya lasciare il Myanmar, una dittatura militare dove negli ultimi anni sono avvenute alcune incerte aperture, non è una scelta: i rohingya intraprendono un viaggio costoso e pericoloso a causa delle discriminazioni, delle persecuzioni e delle violenze intercomunitarie a cui sono sottoposti nel loro paese. Sono di religione musulmana, mentre la maggioranza dei birmani è buddista, e sono poco meno di un milione in un paese di circa 50 milioni di abitanti. La maggior parte è concentrata nello stato di Rakhine, nella parte occidentale del paese, dove rappresenta circa un quarto dei quattro milioni di abitanti.
Gran parte delle discriminazioni a cui sono sottoposti i rohingya sono legali e portate avanti dal governo in maniera ufficiale. Dal 1982 ai rohingya è stata tolta la cittadinanza perché il governo li accusava di essere immigrati dal Bangladesh dopo il 1823, anno in cui il Myanmar perse l’indipendenza e divenne una colonia britannica. I rohingya sostengono invece di essere i discendenti dei mercanti musulmani arrivati in Myanmar via mare durante il medioevo. Senza la cittadinanza, i rohingya sono considerati dei cittadini di serie b: hanno grosse limitazioni per quando riguarda l’accesso all’istruzione – motivo per cui molti di loro hanno soltanto un’istruzione religiosa, a volte di tipo fondamentalista -, alla sanità e al possesso di terreni. Dall’inizio dello scorso aprile la loro situazione si è ulteriormente aggravata, poiché il governo ha deciso di ritirare anche le loro “carte di identità temporanee”, trasformandoli in tutto e per tutto in apolidi, cioè persone prive di una nazionalità.
Tensioni etniche
Oltre alle discriminazioni di stato, i rohingya devono affrontare anche le tensioni con il resto della popolazione del Rakhine, un gruppo che si chiama a sua volta rakhine e che è stato anch’esso discriminato dal governo del Myanmar. Rohingya e rakhine vivono in un regime di separazione praticamente totale: ai primi è permesso di abitare soltanto in alcuni campi fuori dalla capitale dello stato e in paesi isolati e difficili da raggiungere. Ai rohingya è praticamente proibito spostarsi e sarebbe comunque piuttosto pericoloso. Adam Ellick e Nicholas Kristof, due giornalisti del New York Times che hanno lavorato a un documentario sulla situazione in Rakhine, hanno raccontato delle difficoltà nell’interagire con la popolazione locale e delle difficoltà che la tensione etnica ha causato al loro lavoro. Guide e traduttori musulmani, ad esempio, non volevano – e a volte non erano autorizzati – a passare attraverso i territori buddisti e i buddisti si rifiutavano di avere a che fare con i musulmani.
Una delle guide di Ellick e Kristof si rifiutò di riaccompagnarli in un villaggio buddista, temendo di essere attaccato perché poco prima li aveva condotti in un villaggio musulmano. Tra i ragazzi del posto, i giornalisti hanno visto molte magliette con slogan anti-rohingya e uno dei loro tassisti aveva auspicato che un tifone spazzasse completamente via tutti i musulmani. Le tensioni etniche si sono trasformate in vere e proprie “cacce all’uomo” e in scontri molto violenti tra i due gruppi. Nell’estate del 2012 rohingya e rakhine si sono scontrati violentemente, causando un centinaio di morti e spingendo il governo militare a inviare l’esercito.
Secondo diverse organizzazioni internazionali, più di centomila rohingya hanno abbandonato il Myanmar negli ultimi tre anni, andando soprattutto in Bangladesh, Pakistan e Arabia Saudita. Altri 25 mila sono fuggiti dall’inizio del 2015, molti utilizzando imbarcazioni di fortuna e pagando il viaggio fino a duemila euro (per permettersi queste cifre, i rohingya sono costretti in genere a vendere tutto ciò che possiedono). Oltre alle navi, i rohingya spesso cercano di fuggire attraversando con l’aiuto dei contrabbandieri la giungla che li separa dalla Thailandia. Qui vengono radunati in campi organizzati dai trafficanti dove a volte vengono picchiati e ricattati. Le autorità thailandesi hanno recentemente trovato in uno di questi campi una fossa comune con trenta cadaveri. La notizia ha spinto diversi governi, compreso quelli di Thailandia e Bangladesh, ad arrestare molti trafficanti e a iniziare nuove politiche per combattere i contrabbandieri di esseri umani. Ma gli stati vicini al Myanmar finora hanno fallito nell’implementare politiche di accoglienza per i rohingya che fuggono e per salvare quelle migliaia che proprio in questi giorni sono ancora intrappolati in mare.