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  • Domenica 10 maggio 2015

Torino è casa nostra

Giuseppe Culicchia ha esteso a tutti un vecchio pensiero (prima era solo casa sua), e ha riscritto la guida racconto della sua città

Abbaini sul tetto di una casa storica a Torino

(Vittorio Zunino Celotto/Getty Images)
Abbaini sul tetto di una casa storica a Torino (Vittorio Zunino Celotto/Getty Images)

È appena uscito per Laterza il libro di Giuseppe Culicchia Torino è casa nostra. A dieci anni dall’uscita di Torino è casa mia, Culicchia ha scritto una nuova versione della sua “guida” di Torino che descrive la città come se fosse un appartamento, in cui ogni capitolo e ogni zona della città corrisponde a una stanza. Ne è nato questo libro, aggiornato con tutto quello che è cambiato in questi dieci anni a Torino, e nella vita di Culicchia. Questa è la nuova introduzione.

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A un certo punto della storia del genere umano, stando a quanto si è letto sui giornali, gran parte degli italiani non è più andata in vacanza. Era iniziata ufficialmente la crisi più grave dal 1929, e di conseguenza si era costretti a restare in città. È così che noi torinesi ci siamo ritrovati ad avere un enorme vantaggio sui nostri connazionali: Torino aveva scoperto solo di recente la sua vocazione turistica. Perciò la maggior parte degli italiani non c’era ancora mai stata, in vacanza. A cominciare da noi torinesi, che finora, per le nostre vacanze, chissà perché avevamo sempre scelto altre località. Da lì in poi, invece, optando per Torino avremmo potuto stupire innanzitutto noi stessi, ma anche i nostri amici e parenti che vivevano altrove. Io, per esempio, un giorno ho chiamato un amico carissimo che sta a Roma.
«Tu quest’anno in vacanza dove vai?», gli ho chiesto.
E lui: «Macché vacanza e vacanza, con ’sta crisi che c’è sto a Roma. E tu?».
«Io no, per carità, Roma è meravigliosa ma in vacanza ci sono già stato più volte. Quest’anno ho deciso di cambiare meta: vado a Torino».
«A Torino?».
«Sì. Perché, non lo sai che Torino ora che ha scoperto la sua vocazione turistica è una delle località più gettonate?».
«Beh, in effetti ne avevo sentito parlare. Però scusami, tu a Torino ci abiti».
«E certo che ci abito. Ma non ci sono mai stato in vacanza».
«A dire il vero, manco io».
«E allora vedi? Non te la faresti tu una vacanza a Torino?».
«Altroché se me la farei, l’hai detto tu che è una delle località più gettonate».
«Bravo. E se te la faresti tu una vacanza a Torino, perché non me la dovrei fare io?».
«In effetti… allora buona vacanza».
«Grazie».
Certo, non tutti hanno la fortuna di vivere a Torino e possono dunque permettersi di fare le vacanze a Torino. Sta di fatto che, dovunque si viva, ci si può organizzare in almeno due modi diversi.
Il primo modo di fare le vacanze nella propria città consiste nell’aggirarsi in un quartiere che non si conosce. È tutto sommato la soluzione più semplice, nel senso che non richiede alcun camuffamento e consente di scoprire realtà ricche di sorprese. Un torinese che abiti in centro potrà dunque fare le vacanze alle Vallette, un milanese che risieda a Brera potrà scegliere Quarto Oggiaro, un napoletano di Posillipo spingersi a Scampia, un palermitano con casa in via Libertà optare per lo Zen, eccetera. E viceversa, naturalmente.
Il secondo modo di fare le vacanze nella propria città consiste invece nel farle addirittura nel proprio quartiere: che poi, volendo, a pensarci si tratta di una nuova versione delle vacanze cosiddette estreme. Ecco dunque che in questo caso il camuffamento può rendersi necessario, almeno se si risiede in un quartiere di quelli in cui c’è ancora vita di quartiere, e quindi ci si conosce un po’ tutti, e ci si saluta, cosa che obiettivamente non contribuisce a creare un clima vacanziero, specie per i tanti italiani che fino all’altro ieri andavano in vacanza in Kenya o alle Seychelles. Bastano un impermeabile, la classica barba finta, un paio di occhiali, se si vuole strafare una parrucca, ed ecco risolto il problema. All’inizio, proprio il fatto di uscire di casa camuffati potrà aiutare questi adepti della vacanza estrema a vedere con altri occhi le solite vie e piazze e gli abituali bar e ristoranti, anche per via dell’inevitabile tensione che proveranno incrociando come ogni giorno la portinaia, il giornalaio o il tabaccaio: «E adesso? Mi riconoscerà o non mi riconoscerà? E se mi riconosce, che dico per giustificare il fatto che mi sono conciato così?».

Vabbè. Per tornare a Torino, a noi torinesi qualcosa di simile è successo nel 2006, quando la nostra città ha ospitato le Olimpiadi Invernali. In quell’occasione, infatti, ci siamo sorpresi a constatare quanto Torino fosse apprezzata da chi, arrivando da fuori, la vedeva per la prima volta. E, per la prima volta, anche noi l’abbiamo vista con occhi diversi, apprezzando luoghi e colori che fino al giorno prima davamo per scontati, al punto da non vederli più. Ecco: non sarebbe male se, approfittando giocoforza del fatto che non possiamo più permetterci di andare in vacanza altrove, tornassimo a guardare le nostre città con lo stesso stupore con cui visitiamo i luoghi delle nostre vacanze. Senza contare che ormai i luoghi delle nostre vacanze di solito li abbiamo già visti e stravisti prima ancora di averci messo piede, complici il Web e la civiltà delle immagini. Mentre davvero quelli in cui viviamo non li vediamo più. E riscoprirli potrebbe valere molto più del prezzo del biglietto (anche perché stavolta è gratis).
È con questo spirito che, malgrado la crisi fosse di là da venire, poco più di dieci anni fa ho scritto Torino è casa mia. Un libro nel quale ho cercato di raccontare la città in cui vivo spogliandola degli stereotipi che da sempre saltavano fuori al solo nominarla, e dunque partendo proprio da quelli. Il caso ha voluto che intanto, mentre scrivevo, la città avesse cominciato a scrollarseli di dosso pure lei, quegli stereotipi. Risultato: da «grigia città industriale», nonché «laboratorio», nonché «culla dell’Azionismo», nonché capace di coniugare la «cultura operaia» con il «catalogo Einaudi», Torino ha fatto un triplo salto mortale carpiato e tra un’Olimpiade e una cementificazione… pardon, una riqualificazione urbana, si è magicamente trasformata nella «città della movida». Di modo che in un amen è nato anche l’apposito comitato antimovida. Forse perché la famosa cosiddetta movida è democratica, nel senso che non fa dormire nessuno, né chi la pratica né chi la subisce. Non a caso nacque a Madrid proprio con la fine del franchismo e l’avvento della democrazia, anche se all’epoca, si era all’inizio dei mitici o se preferite famigerati anni Ottanta, per movida madrilena si intendeva non solo l’ubriacatura collettiva che animava nottetempo strade e piazze di quella città, ma anche un vero e proprio movimento culturale, con una rivista dal nome appropriato («La Luna») e una serie di artisti e personaggi di riferimento, da Carmen Maura a Pedro Almodóvar.

Poi si sa come sono andate le cose. La movida formato export ha preso piede nei luoghi più disparati, scaldando le notti di innumerevoli altre città e località di mare europee e non. Solo che la parte culturale è passata per così dire in secondo piano, a meno che per cultura non si voglia intendere il dj che già all’ora dell’aperitivo spara ‘a palla’ il remix house di Ciuri Ciuri Ciuri di Tuttu l’Annu, tra ululati di giubilo, manine al cielo e cravatte annodate intorno al cranio, e tra praticanti ci si è concentrati su due ingredienti peraltro compresi anche nella ricetta originale, leggi cocaina e botellón. Risultato: nella già austera Torino, prima i Murazzi, poi il Quadrilatero, poi piazza Vittorio, poi San Salvario e infine Vanchiglia sono diventati dei veri e propri non-luoghi, non perché l’ultima variante al piano regolatore li abbia trasformati in centri commerciali o aeroporti, ma perché ormai intercambiabili per ‘stili di vita’ e ‘modelli culturali’ all’insegna del ‘vale tutto’ con i Navigli milanesi o con la zona di Campo de’ Fiori a Roma oppure, da non credere, con il veneziano Campo Santa Margherita.
Il problema è che nei non-luoghi individuati da Marc Augé, tra i quali per l’appunto centri commerciali e aeroporti, transitano masse sospinte dal desiderio di consumare in modo frenetico o accelerare gli spostamenti, ma nessuno vi abita. Nei non-luoghi della movida, invece, abitano migliaia di persone che di giorno, magari precariamente, lavorano, e che durante le ore notturne hanno un grande e ovviamente legittimo bisogno di riposo. Un bisogno reso impossibile dagli usi e costumi adottati dai praticanti della movida, identici a ogni latitudine e – come dire? – non di rado un filo sopra le righe, malgrado i patetici inviti della serie LA GENTILE CLIENTELA È PREGATA DI NON FARE SCHIAMAZZI apposti dai gestori dei locali della movida fuori dai medesimi. Così, chi abita nei non-luoghi della movida reagisce con telefonate alle forze dell’ordine, lettere ai giornali, petizioni, raccolte di firme, gavettoni, e talvolta bastonate o coltellate, anche se non necessariamente in quest’ordine. Chi pratica la movida, invece, aumenta subito il volume, passando ai cori da stadio e talvolta prendendo a sassate chiunque si affacci a una finestra o indossi un’uniforme. E ogni tanto un sindaco firma un’ordinanza in cui l’orario di chiusura dei locali viene anticipato a mezzanotte. Segue allora immancabilmente il ‘dibbbattito’ tra chi sostiene il diritto al riposo e chi parteggia per il diritto alla movida, con conseguenze a un tempo esilaranti e tragiche: vedi il caso di Sergio Cofferati, che da primo cittadino di Bologna anni fa si beccò immediatamente del ‘fascista’. Va da sé che non si tratta di una questione di ordine pubblico, ma antropologica. Il «buon tuono», scriveva Leopardi, è ignoto agli italiani. Quanto ai non-luoghi di Augé, sono proiettati solo sul presente. E dato che lo stesso vale per i non-luoghi della movida, occorre prenderne atto. Il nostro presente è quello che è. Da più di trent’anni a questa parte, lo raccontano magistralmente innanzitutto i Vanzina.

Detto questo, Torino è davvero molto cambiata nel corso degli ultimi anni, più di quanto sia cambiata qualsiasi altra città italiana, e dunque Torino è casa mia aveva bisogno di qualcosa di più di una rinfrescata. Così mi sono detto che forse valeva la pena di riscriverlo daccapo. Anche perché se uno oggi come oggi scende ai Murazzi pensando di trovarci i Murazzi, voglio dire i Murazzi a cui eravamo abituati, o se preferite i Murazzi d.G., che sta per ‘dopo Giancarlo’, beh, potrebbe rimanerci male. O bene, dipende dalle aspettative, dagli stili di vita e dai punti di vista. Per dire: dalle parti della Crocetta è sparito un garage dall’entrata in stile liberty. A Porta Palazzo è spuntato il PalaFuk… pardon, il Centro Palatino. Gli intonaci colorati delle facciate degli edifici del Villaggio Olimpico sono già scrostati. Via Lagrange è stata chiusa al traffico alla pari di via Garibaldi e di via Carlo Alberto e addirittura di via Roma. L’altra squadra, quella che gioca a Venaria, non sta più in serie B.
Ma non solo. Perché al contrario di un tempo, un tempo abbastanza recente, Torino è diventata altro da sé nell’immaginario collettivo degli italiani. Ho perso il conto delle volte che, eravamo ancora nel secolo scorso, quando presentavo uno dei miei libri in un’altra città italiana e dicevo che ero di Torino mi sentivo rispondere: «Oh, poverino». A un certo punto, invece, eravamo già nel nuovo millennio, la reazione è diventata: «Ah, che fortuna!». A Roma, nella redazione di una radio, mi sono sentito dire che tanti ragazzi della Capitale oggi sognano di venire a vivere a Torino come negli anni Settanta sognavano di andare a studiare a Bologna. Roba da non credere. Ancora ancora, avessero voluto venire a studiare a Torino come già a Bologna. Ma loro no: vogliono venirci a vivere. Vivere. Vivere a Torino. Nell’ex città-fabbrica che città-fabbrica non è più e che, a ben vedere, non è mai stata. E che, questa è davvero grossa, anche se in realtà non c’è troppo da stare allegri non si vergogna più di divertirsi.

Già: perché i torinesi si sono sempre divertiti, ma una volta… si vergognavano di farlo sapere. Avevano un’immagine pubblica a cui attenersi. Erano militari. Operai. Intellettuali. Gente abituata alla disciplina e all’autodisciplina. Anche per questo a Torino si sono sempre fatte tante feste private. Molto private. In questa città Roberto D’Agostino non sarebbe mai riuscito a recuperare abbastanza materiale per il suo Cafonal. Vuoi per lo stile, certo, che in riva al Po è differente rispetto a quello che impera in riva al Tevere o dalle parti dei Navigli. Ma anche per l’oggettiva difficoltà a intrufolarsi in determinati ambienti e circoli e luoghi: perché se non hai frequentato lo stesso liceo del padrone di casa, col piffero che t’invitano. Già, funziona così, ha sempre funzionato così e funzionerà sempre così. Noi le regole che informavano la vita nelle caserme e nelle fabbriche ce le portiamo dentro di generazione in generazione, anche se ormai parecchie di quelle caserme e gran parte delle fabbriche sono state chiuse o addirittura rase al suolo. Però, è successo qualcosa: perché oggi come oggi i torinesi non si vergognano più di divertirsi. Peccato che al momento non ci sia molto di cui divertirsi. Ma passerà.

Dopodiché, rispetto a Torino è casa mia, questa Torino è casa nostra è anche una storia orale della città, perché in questo volume parlano tanti torinesi: uno che a Torino fa il cioccolato, una che fa l’ostetrica, uno che pulisce il fiume, una che tiene in ordine i giardini, uno che si prende cura degli ammalati, una che ha aperto un locale dove si mangia tedesco, uno che ne ha aperto un altro dove si mangia siciliano… Quando uscì Torino è casa mia a un certo punto mi chiesi perché mai non si potesse creare un sito web dove tutti i torinesi potessero raccontare la loro Torino a partire dall’idea che fosse la casa dove vivevano. E così qualcuno di loro me lo sono andato a cercare. Purtroppo non potevo far parlare qui poco meno di un milione di persone. Quelle che mancano facciano sentire in qualche modo la loro voce. Sono certo che hanno un mucchio di cose da dire sulla loro città. Mia. Nostra. Vostra.