Elogio di McDonald’s, di James Franco
Il celebre attore americano ha raccontato sul Washington Post la sua esperienza da dipendente di McDonald's, che gli ha dato un lavoro «quando non c'era nessun altro»
di James Franco - Washington Post
Le vendite di McDonald’s sono crollate. Forse la gente ha deciso che vuole un cibo più sano. Forse c’è troppa concorrenza. Forse alla gente non piace più di tanto il nuovo panino messicano che hanno appena presentato. Gli amministratori di McDonald’s hanno promesso di cambiare le cose, dedicandosi al cibo “fresco e cucinato al momento”, vendendo alcune società controllate – così da abbassare il costo del lavoro – e tagliando i costi per 300 milioni di dollari. In che modo questi tagli influenzeranno i lavoratori e i loro stipendi non è chiaro.
Ma io voglio che questa strategia funzioni. Tutto quello che so è che quando avevo bisogno di McDonald’s, McDonald’s era lì per me, quando non c’era nessun altro. Nel 1996, quando avevo 18 anni, mi trasferii a Los Angeles da Palo Alto per studiare letteratura inglese alla UCLA. In poco tempo capii che metà della città lavorava nell’industria del cinema e l’altra metà stava cercando di entrarci, e visto che non avevo rispettato i tempi per fare la mia domanda di iscrizione al corso universitario di teatro, avrei dovuto aspettare due anni per fare una nuova domanda.
Due anni mi sembravano un’eternità: così mollai l’università e mi iscrissi a un’improbabile scuola di teatro nella San Fernando Valley. I miei genitori, che sono entrambi laureati e prendono molto seriamente l’istruzione, mi dissero che nel caso avessi lasciato il college avrei dovuto mantenermi da solo. Non avevo una macchina, così cercai di trovare lavoro in uno dei ristoranti che si trovavano nei dintorni dal mio appartamento (che dividevo con altri due aspiranti attori, dormendo sul divano). Avevo pochissima esperienza lavorativa. Al liceo fui licenziato dal bar dove lavoravo perché leggevo dietro la cassa. Dopo fui anche licenziato da un golf club perché leggevo mentre guidavo l’auto elettrica in giro per i campi. Tutti i lavori da cameriere erano già presi da camerieri/attori molto più esperti di me.
Qualcuno mi chiese se mi consideravo troppo bravo per poter lavorare da McDonald’s. Decisamente NON ero troppo bravo per lavorare da McDonald’s e così andai al primo ristorante che trovai e fui assunto il giorno stesso. Mi diedero il turno di notte al servizio di take-away per le automobili. Indossavo un cappello con visiera viola e una polo viola e ricevevo gli ordini tramite microfono. Riuscii ad astenermi dal leggere al lavoro, ma molto presto cominciai a fingere di avere accenti strani, per allenarmi alle mie scene al corso di teatro.
Nonostante imitassi gli accenti in maniera terribile (li facevo tutti: accento di Brooklyn, italiano, inglese, irlandese, russo, del sud), la gente li trovava convincenti. Una ragazza mi chiese se potevo darle lezioni di italiano. Credeva fossi di Pisa. Naturalmente non potei farlo, visto che non parlo italiano. Il direttore del casting del telefilm NYPD Blue apprezzò il mio accento inglese ma mi scartò dalle selezioni quando scoprì che ero soltanto un ragazzo californiano. Un paio di persone volevano fare a pugni con il mio alter ego irlandese, mentre quello che parlava con l’accento di Brooklyn ottenne due appuntamenti.
Ero vegetariano da un anno quando cominciai a lavorare da McDonald’s perché ero ossessionato dall’attore River Phoenix – che una volta si mise addirittura a piangere, quando Martha Plimpton ordinò del granchio a cena. Ma non appena arrivai da McDonald’s cominciai a mangiare i cheeseburger che erano destinati all’immondizia per essere stati troppo a lungo – cioè più di sette minuti – nel cassone sotto la lampada riscaldante, quello che vedete dietro i cassieri. Dopo un mese mi permisero di lavorare alla cassa, di giorno.
Ho scoperto delle cose. I genitori che ordinano per i bambini sono i peggiori e i genitori che ordinano per un intero gruppo di bambini sono il diavolo incarnato. Alcuni clienti sembrano pensare che pagare per il cibo li autorizzi a comportarsi come se fossero i capi di tutte le persone in servizio. Ma visto che state mangiando in un fast food, esattamente, di quanti diritti godete? Dal momento che state pagando un dollaro per un panino, è forse la fine del mondo se mi dimentico per sbaglio di togliergli il ketchup come mi avete chiesto?
Una madre senza casa e suo figlio frequentavano il mio ristorante. Vivevano nella loro automobile e facevano le parole crociate per tutto il giorno. A volte ordinavano cibo da noi, altre volte si portavano il loro cinese o qualcosa comprato al supermercato. Feci colpo sul cuoco degli hamburger. Voleva che ci beccassimo nei bagni, ma non parlava inglese e quindi me lo fece dire da qualcuno che traduceva per lui. Dopo tre mesi di lavoro a McDonald’s venni scelto per uno spot di Pizza Hut per il Super Bowl. Visto che era per il Super Bowl era molto elaborato: un Elvis Presley generato al computer cantava e serviva contemporaneamente una nuova pizza della catena. Da quel momento in poi fui in grado di mantenermi con il mio lavoro di attore.
Venni trattato piuttosto bene da McDonald’s. Se non altro, non mi sono stati addosso. Come il loro cibo, anche il loro lavoro era più facile da ottenere che in qualsiasi altro posto. Quando ero affamato di lavoro, loro ci sono stati. Apprezzo ancora oggi la semplicità dell’hamburger McDonald’s e le sue patatine fritte super salate. Dopo aver letto il libro “Fast Food Nation” fatico a fidarmi della qualità della loro carne, ma forse una volta l’anno, mentre sono in viaggio nel mezzo del nulla per un film, mi fermo da McDonald’s per prendere un cheeseburger: leggero, spensierato e soddisfacente.
©Washington Post 2015