I 70 anni di Keith Jarrett
Storia e musica del pianista jazz contemporaneo più famoso del mondo
Keith Jarrett è probabilmente il più famoso pianista jazz contemporaneo: lo strumento che suona, il leggendario successo “trasversale” di un suo disco del 1975, l’accessibilità melodica di buona parte della sua musica, hanno nel suo caso sottratto il jazz alla nicchia a cui molti utenti di musica in tutto il mondo guardano con diffidenza. È diventato – in un suo piccolo, rispetto alle popstar – “mainstream”, personaggio dei media generalisti, nome noto anche a chi non conosce i suoi dischi. L’8 maggio 2015 compie 70 anni: sta meglio, dopo una malattia di una decina d’anni fa. Allora, ne scrisse un esteso ritratto Christian Rocca sul Foglio, utile per chi ne sa poco, di Keith Jarrett.
(le immagini sono tratte dal nuovo libro Keith Jarrett, Un ritratto di Roberto Masotti)
Tanto per cominciare, Keith Jarrett non è nero. I suoi occhi bruni, la carnagione scura, la capigliatura afro, e naturalmente il jazz, hanno ingannato molte persone.
Aveva ventotto anni quando mise in musica le regole della Commedia dell’Arte, la sua specialità: i concerti di piano improvisations, l’improvvisazione solitaria al piano.
Funziona così. Jarrett sale sul palco e si siede sullo sgabello davanti al pianoforte. Non ha ancora idea di che cosa suonerà, fino a quel momento è stato chiuso nella sua camera d’albergo a leggere, meditare e mangiare macrobiotico. Nel pomeriggio aveva fatto un salto in teatro a provare due o tre Steinway gran coda. Soltanto pochi minuti per scartarne due, e poi scegliere quello davanti al quale ora è seduto. Non sa ancora che cosa suonare. Si concentra, in sala non vola mosca. L’attesa diventa imbarazzante. Infine si china sulla tastiera, le mani si avvicinano ai tasti, ne sfiorano uno, arriva una nota, poi l’altra, e succede quello che nessuno pensa sia possibile. Jarrett compone sull’istante, non c’è partitura, la sua è una composizione istantanea, senza rete, suona quello che la mente in una frazione di secondo gli suggerisce. Lo sforzo è sovraumano. Si contorce, ondeggia, si alza dallo sgabello, batte i piedi sul legno del palcoscenico, si agita, cerca di accompagnare le note anche con il corpo, canticchia la melodia un attimo prima di eseguirla, ansima. C’è chi dice faccia l’amore con il pianoforte. Quello che conta è la prima nota, le prime quattro. A volte l’attacco è faticoso, Jarrett non riesce a trovare il seme giusto, spesso gli riesce difficile uscire da una situazione in cui si è cacciato, e per questo il tempo che riempie i due silenzi trascorre per quaranta minuti. Capita che brancoli alla ricerca di un nucleo fecondo che tarda ad arrivare, ma il più delle volte la musica è meravigliosa. Si sente Chopin e il blues, il jazz informale e la poesia postromantica, un ritmo ostinato e una melodia indiana.
Il suo concerto più famoso è quello di Colonia, il disco jazz più venduto di sempre. Jarrett preferisce quello di Vienna, i più belli sono quelli di Brema e Losanna, ci sono quelli giapponesi, ce n’è uno anche a Milano, alla Scala dove ha suonato il 13 febbraio 1995.
(continua a leggere sul blog di Christian Rocca)