Gli afroamericani che sono andati a vivere in Russia
Prima come schiavi, dopo la Rivoluzione per sfuggire alla segregazione nei loro paesi: un'ex insegnante afrorussa di chimica ha raccontato la loro storia sul Los Angeles Times
Emilia Tynes-Mensah è un’ex insegnante di chimica di 74 anni che ha una storia particolare: è nata e cresciuta in Russia da padre afroamericano e madre ucraina: appartiene cioè alla comunità degli afrorussi, gli afroamericani che si sono stabiliti in Russia la cui storia è stata raccontata in un articolo di pochi mesi fa dalla giornalista del Los Angeles Times Ann Simmons.
In generale la storia degli africani in Russia ha radici molto antiche. I primi – soprattutto originari del Corno d’Africa e dell’isola di Zanzibar – arrivarono in Russia con la tratta degli schiavi a partire dal Sedicesimo secolo: le navi dell’Impero ottomano attaccavano i vascelli europei che avevano a bordo i prigionieri africani, li catturavano e poi li vendevano alla Russia degli zar. Il loro viaggio verso la Russia non comportava alcun cambiamento in termini di condizioni di vita: erano schiavi degli europei prima, e dei russi poi. Nel 1917, anno della Rivoluzione russa e della fine del sistema zarista, le cose cambiarono. Gli afroamericani iniziarono spostarsi in Russia liberamente, e non più come schiavi. Le ragioni erano diverse: alcuni lo fecero per sfuggire alla segregazione razziale dei loro paesi, altri perché spinti dal desiderio di aderire al partito comunista – come l’attore e musicista Paul Robeson e il poeta Langston Hughes – altri ancora per spirito di avventura.
Intorno al 1930 il nuovo regime sovietico cambiò le sue politiche relative ai lavoratori stranieri: decise di assumerne di più, soprattutto esperti di agraria. Circa 18mila americani, tra cui centinaia di afroamericani, andarono in Unione Sovietica in cerca di lavoro: a loro fu data la possibilità di studiare, di formarsi da un punto di vista professionale e di lavorare. Nel giro di una quarantina d’anni gli afroamericani in Russia divennero 400mila. Anche il padre di Emilia Tynes-Mensah era un agronomo. Emilia ha raccontato che il padre decise di andare in Russia in cerca di migliori possibilità per sé e per la sua famiglia. Il signor Tynes si era laureato alla Wilberforce University ed era un talentuoso giocatore di football: se fosse rimasto negli Stati Uniti avrebbe però potuto fare il lavapiatti in qualche bar, e poco altro. Emilia ha detto: «Mio padre stava meglio in Unione Sovietica che in America. Era felice».
In quegli anni l’integrazione tra afroamericani e russi fu piuttosto buona. L’Unione Sovietica accolse bene gli stranieri, anche per ragioni di convenienza: il regime poteva sfruttare le loro conoscenze tecniche in campo agroalimentare – diedero un grande contributo all’economia sovietica, proponendo l’utilizzo di nuovi materiali, come la corda di canapa, o di piantagioni meno costose e più redditizie – e poteva mostrare la natura che definiva “democratica” del regime. Gli americani che si stabilirono in Unione Sovietica mantennero le loro usanze e tradizioni. Emilia ha raccontato: «festeggiavamo il Ringraziamento e ascoltavamo musica jazz: mio padre amava Ella Fitzgerald, Duke Ellington e Paul Robeson».
Allison Blakely, professore emerito di storia alla Boston University, ha dedicato gran parte delle sue ricerche alla diaspora afroamericana e ha scritto che «l’impatto che gli afroamericani ebbero sulla cultura russa fu sproporzionato rispetto al loro numero. Ciò accadde perché la dirigenza del regime voleva cercare di renderli il simbolo della democraticità sovietica».
Dalla seconda metà degli anni Trenta la situazione per gli afroamericani cambiò di nuovo: quando il regime sovietico diede inizio alle grandi purghe – ovvero il periodo di repressione voluto da Stalin con l’intento di eliminare tutti i possibili cospiratori dal partito comunista – il processo di integrazione degli afroamericani si fermò, soprattutto a causa di una nuova percezione degli “stranieri”. Le cose peggiorarono ulteriormente negli anni Sessanta, nel pieno della Guerra fredda: i russi cominciarono a guardare con sempre più diffidenza gli afroamericani, non tanto per via del fatto che erano neri, ma semplicemente perché venivano da un altro paese. In quegli anni molti afroamericani cominciarono a sentirsi diversi ed emarginati. Lo ha raccontato non solo Emilia, ma anche Yelena Khanga, una giornalista e conduttrice televisiva afrorussa piuttosto nota. Oggi la situazione non è migliorata e il livello di integrazione non è per nulla simile a quello raggiunto negli anni Trenta. Emilia Tynes-Mensah ha fondato una ONLUS di nome Metis che ha lo scopo di offrire sostegno a tutti i bambini di razza mista – soprattutto di origine afroamericana – che vivono ancora in Russia. Emilia ha detto: «Gli afrorussi vorrebbero sentirsi russi ma la società non li riconosce come tali». Ecco perché alcuni di loro vorrebbero tornare negli Stati Uniti o in Africa.
Nella foto: Emilia Tynes-Mensah e la sua famiglia nel 1950 (Los Angeles Times)