George Weah, il prototipo di Ronaldo
Storia e foto dell'unico Pallone d'Oro africano, che mostrò come sarebbero stati i campioni di dieci o vent'anni dopo
Stefano Piri ha raccontato sulla rivista online Ultimo Uomo la carriera di George Weah, ex noto calciatore liberiano e finora unico giocatore africano ad aver vinto il Pallone d’Oro: accadde nel 1995, quando era al Milan e aveva appena concluso un’ottima stagione col Paris Saint-Germain. Nel corso della sua carriera Weah non ha vinto moltissimo: due Scudetti col Milan, un campionato francese col Paris Saint-Germain e nessun trofeo europeo. Ma fra il 1994 e il 1996 fu probabilmente il centravanti migliore al mondo, uno dei primi completi in quel ruolo: a una gran tecnica univa velocità, senso del gol e potenza fisica. Secondo Piri Weah è stato «un grande anticipatore, un araldo sceso sulla terra a mostrarci come avrebbero giocato i campioni bionici di dieci o vent’anni dopo. Se vogliamo Weah è una specie di prototipo grezzo di Ronaldo [quello brasiliano]». Weah si è ritirato nel 2002, a 36 anni. Tre anni dopo si è candidato alla presidenza della Liberia, venendo sconfitto al ballottaggio. Da allora fa prevalentemente politica: nel 2014 è stato eletto al Senato liberiano, dopo avere ottenuto il 78 per cento dei voti nel suo collegio.
Se guardate una volta di più il gol di Weah contro il Verona dentro ci trovate un bel pezzo di questa storia, quasi che i 14 secondi che intercorrono tra il momento in cui il pallone atterra sul collo del piede destro e quello in cui lo stesso pallone supera la linea di porta dalla parte opposta del campo raccontassero per metonimia tutta l’essenza e la narrativa della straordinaria carriera di George Manneh Oppong Weah.
Partiamo dalle circostanze: l’8 settembre 1996 Weah sta per compiere trent’anni, è il Pallone d’oro in carica e Milan-Verona è la prima giornata di campionato di quella che a conti fatti si rivelerà la sua penultima stagione ai massimi livelli. Mancano 5 minuti alla fine e Weah recupera palla nella sua area di rigore sul corner battuto male da Manetti del Verona. Si potrebbe parlare di spirito di sacrificio se non ci fosse da dubitare che per lui, a quel punto della carriera, esista il concetto stesso di sacrificio in rapporto alle prestazioni atletiche. Parte prima, la tecnica: Weah addormenta il pallone con il collo del piede, e con lo stesso movimento lo spinge avanti a sé rovesciando l’azione. I primi 40 metri, fino a poco oltre la linea di centrocampo, li fa senza essere contrastato e senza che i giocatori del Verona riescano a riposizionarsi.
Il motivo è che lui con la palla incollata ai piedi riesce ad essere molto più veloce degli avversari in corsa libera. Persino quando una zolla del prato di San Siro fa imbizzarrire lievemente un rimbalzo, Weah non altera la velocità della corsa, e si vede che esercita un controllo assoluto.
Parte seconda, la resilienza: Weah supera la linea di centrocampo e impatta letteralmente contro la penultima linea di difesa di un Verona lungo e sorpreso. Sono comunque due gli avversari che si gettano più o meno contemporaneamente sul pallone, mentre un terzo gli chiude la via di fuga a destra. Il riflesso di Weah sull’impatto del contrasto combinato di Fattori e Colucci è quello che ci si aspetterebbe da un uomo di gomma, o da un eccezionale sciatore acrobatico che si trova di fronte un ostacolo imprevisto: gira su sé stesso e fa scivolare il piede fuori dall’intreccio di gambe dei due avversari, rimbalza e tiene un equilibrio prodigioso spingendo ancora il pallone avanti. Questo è il momento in cui tutti capiscono che Weah non può essere fermato, e che qualcosa di straordinario sta per succedere. È il momento in cui ci si alza e si trattiene il fiato, ma ancora si rimane in silenzio.