• Libri
  • Mercoledì 29 aprile 2015

La nascita di Linus (la rivista)

A cinquant’anni dalla pubblicazione del primo numero, un libro racconta la storia della storica rivista di fumetti e molto altro

Rizzoli Lizard ha pubblicato il libro Linus. Storia di una rivoluzione nata per gioco, di Paolo Interdonato, con una prefazione di Umberto Eco. Nel libro Interdonato racconta la nascita, 50 anni fa, della rivista che ha dato un contributo fondamentale alla diffusione in Italia di molti fumetti stranieri oggi famosissimi, attraverso gli incontri di un gruppo variegato di persone radunato da Giovanni Gandini intorno alla libreria Milano Libri. In questo estratto, la composizione del primo numero della rivista e la selezione degli autori che ne costituiranno la struttura fondamentale.

***

Fatti a strisce

Il sottotitolo di «Linus» recita «Rivista dei fumetti e dell’illustrazione» e il primo numero mantiene pienamente la promessa. Non c’è una sola delle sessantaquattro pagine del giornale che non sia dedicata alle narrazioni con immagini.
Nel 1965, il fumetto è un prodotto quasi esclusivamente seriale e nelle pubblicazioni il nome del protagonista è molto più importante di quello di qualsiasi autore. Per rispettare i tempi di produzione di un fumetto seriale, che può arrivare a offrire molte pagine ogni mese, sceneggiatori e disegnatori devono avvicendarsi, cercando di garantire l’aderenza agli stilemi narrativi e grafici, al ritmo del racconto e al carattere dei personaggi.
Anche i fumetti ospitati da «Linus» sono esclusivamente seriali, ma per ognuno di essi viene posto bene in evidenza il nome dell’autore. La rivista, infatti, dedica gran parte della sua attenzione alla comic strip statunitense e non si può discutere di Peanuts senza menzionare Charles M. Schulz.
La striscia è un modulo preciso, dotato di ferree logiche di funzionamento interno: tre o quattro quadretti, a sviluppo orizzontale, pensati per essere letti, in dosi quotidiane, sulle pagine che i giornali americani dedicano all’intrattenimento e ai fumetti. Questa scansione ritmica infallibile si sussegue per sei giorni la settimana, dal lunedì al sabato, per poi cedere il proprio posto alla tavola domenicale, sulla quale l’autore può permettersi l’uso del colore e costruzioni grafiche diverse e, in certi casi, più articolate.

Ogni serie di strisce è associata, in modo quasi indissolubile, al nome del suo autore e, spesso, la serializzazione si interrompe solo alla morte di quest’ultimo; ma, a volte, la striscia sopravvive al suo creatore, grazie all’intervento di nuovi fumettisti ingaggiati dal syndicate, l’organizzazione che gestisce la vendita dei diritti di quel singolare prodotto ai giornali quotidiani.
Le strisce possono risolvere un racconto in quattro quadretti, godendo dei meccanismi iterativi lodati da Vittorini ed Eco nella loro conversazione attorno a «Charlie Brown e i fumetti», o possono concatenarsi permettendo lo sviluppo di lunghi racconti, umoristici e avventurosi, scanditi dal ritmo preciso della risata o del sussulto ogni quattro vignette.

Nel primo numero di «Linus», accanto a Peanuts di Schulz, cui Milano Libri doveva tanto, appaiono Krazy Kat di George Herriman e Li’l Abner di Al Capp.
Krazy Kat, fumetto cui Herriman si dedica senza interruzione dal 1913 al 1944, racconta uno straordinario triangolo amoroso ai cui vertici sono collocati il gatto Krazy, il cane Offisa Pupp e il topo Ignatz: il cane ama il gatto che ama il topo; il cane odia (ricambiato) il topo, che, forse, non ama il gatto, ma lo colpisce, ogni volta che riesce, con un mattone. Il tutto è ambientato a Coconino County, Arizona, in un luogo raccontato senza alcun vincolo di consistenza. Ogni inquadratura, ogni sguardo, è una sorpresa: rocce, deserti e cactus interrompono il loro flusso, fluido e incoerente, solo per lasciare spazio al cubo di cemento della prigione, dove il cane rinchiude, immancabilmente, il topo e il suo duro mattone. Il gatto innamorato, sotto, sospira e intona una serenata al topo e a una fetta di luna.

Li’l Abner, realizzato da Al Capp dal 1934 al 1977, racconta un allegro scontro tra classi sociali: da un lato la poverissima – e felice – comunità rurale di Dogpatch; dall’altro un gruppo sparuto di miliardari ricchissimi, spietati e quasi sempre felicissimi. La classe media, quella che legge i quotidiani che ospitano le strisce di Capp, non esiste in Li’l Abner: essa è, gioco forza, costretta a riconoscersi nella comunità di Dogpatch. E, come fa osservare Ranieri Carano introducendo la serie ai lettori di «Linus», «per quanto sia composta in gran maggioranza da piccoli borghesi, all’America il vestito che da trent’anni va cucendo intorno Capp va bene, calza perfettamente».
Accanto a Peanuts, Krazy Kat e Li’l Abner, sulle pagine del primo numero di «Linus», appare la sequenza di strisce di Popeye, intitolata Braccio di Ferro e le arpie. Quando, nel 1946, alcune strisce del personaggio erano apparse su «Il Politecnico» di Vittorini, l’anonimo redattore (probabilmente Giuseppe Trevisani) che le aveva presentate ai lettori aveva sottolineato la supremazia del personaggio sull’autore. Infatti, elidendo il nome del fumettista, egli aveva scritto:

Popeye […], libero da intenzioni e da riferimenti, arriva forse unico a essere veramente personaggio. Nacque un giorno in cui occorreva una trovata pubblicitaria per una ditta fabbricante di spinaci in scatola. Da allora ha cambiato parecchi autori e ha vissuto di realtà propria, giungendo ad avere una sua vera moralità.

Popeye su «Linus» è chiaramente ed esplicitamente attribuito al suo creatore, Elzie Crisler Segar. Paradossalmente l’episodio Braccio di Ferro e le arpie del proprio creatore riporta solo la firma: esso si compone delle strisce uscite sui quotidiani statunitensi tra il 28 marzo e il 12 agosto 1939. Segar era morto il 13 agosto dell’anno precedente e quel fumetto è opera di Bela Zaboly, lo stesso disegnatore da cui sono state realizzate le strisce pubblicate dal «Politecnico». Un’ulteriore ironia della sorte vuole che l’episodio di Popeye si chiuda con un box pubblicitario che recita: «Le storie di Braccio di Ferro sono pubblicate mensilmente in Italia dalle Edizioni Bianconi». Gli albi pubblicizzati sono realizzati da artigiani italiani, generalmente dimenticabili e decisamente anonimi, che si ispirano unicamente alle scazzottate rese celebri dei cartoni animati, quegli scontri dai quali il protagonista esce sempre vincitore grazie al supporto steroideo degli spinaci. Della comicità e della vena avventurosa di cui il fumetto di Segar è colmo, quelle storie scialbe e ripetitive non recano alcuna traccia.

La famiglia allargata

La pubblicazione di Braccio di Ferro sul primo numero è occasionale e il personaggio non comparirà sulle pagine di «Linus» fino all’inizio del 1968, quando diventerà una presenza costante sulla rivista. I materiali sono difficili da reperire e le strisce pubblicate, tradotte da Renata Spinazzola, provengono dal Centre d’études des littératures d’expression graphique che sulle pagine di «Linus» continua a essere, ostinatamente e simpaticamente, chiamato Club des bandes dessinées.

Peanuts, Krazy Kat e Li’l Abner sono le prime strisce statunitensi che «Linus» ospiterà per un lungo periodo e che caratterizzano i primi tempi della rivista. A queste, nei mesi successivi, se ne affiancano altre, componendo in questo modo un bacino di ottimi fumetti da cui pescare per costruire una rivista capace di richiamare con continuità i lettori appassionati alle serie più popolari e di intrattenerli con una grande varietà di segni e racconti. Le strisce americane più importanti, pubblicate dal giornale nei primi anni di vita, sono Dick Tracy, Pogo, Barnaby, B.C. e Wizard of Id.
Dick Tracy è una striscia poliziesca realizzata, con segno quasi espressionista, da Chester Gould dal 1931 al 1977. Un poliziotto, che indossa la propria rettitudine morale con la medesima tranquillità con cui veste l’impermeabile giallo e il profilo squadrato e tagliente, si scontra con criminali lombrosiani, figure grottescamente deformi che portano sul viso le stigmate del peccato. Sui primi «Linus», la precisione con cui Gould tratteggia i personaggi e gli ambienti metropolitani viene purtroppo attenuata dal pessimo rimontaggio delle vignette – che dal formato striscia vengono malamente reimpaginate per adattarsi a quello della rivista – che riesce a scardinare il ritmo delle strisce e delle pagine domenicali, allineando i quadretti in colonne regolari e ben distanziate. Lo sguardo si perde in queste tabelle di immagini e la lettura diventa difficile.

Pogo è il sublime opossum raccontato da Walt Kelly dal 1949 al 1973. Al confine tra la Georgia e la Florida c’è la palude di Okefenokee e, in questi terreni poco salubri, vive una ricca comunità di animali sudisti. Caratteri ben sviluppati e giochi verbali adattati benissimo in italiano da Bruno Cavallone, per un fumetto con livelli di lettura così ben stratificati da consentire ai lettori tanto sguardi ingenui e divertiti quanto occhiate arcigne e preoccupate dalle metafore del contesto sociale e politico americano.

Barnaby è un bambino che attraversa le difficoltà dell’infanzia grazie a Mr. O’Malley, il suo fato madrino, improbabile (e poco affidabile) versione maschile di tutte quelle fate madrine che nel mondo delle fiabe proteggono e riscattano povere cenerentole con un tocco di bacchetta magica. Le sue storie sono state raccontate, con discontinuità, da Crockett Johnson tra il 1942 e il 1952 e in Italia le si era già potute gustare sul solito «Politecnico» di Vittorini. Johnson ha un rigore narrativo e stilistico straordinario che, però, non basta a garantirgli il giusto grado di soddisfazione: non appena gli è possibile, abbandona l’industria della comic strip per costruire meravigliosi libri illustrati per bambini. Ma prima di allontanarsi riesce a sedurre un pubblico di lettori innamorati. Della sua striscia, la scrittrice e poetessa Dorothy Parker scrive:

Penso, e sto cercando di dirlo con calma, che Barnaby e i suoi amici e i suoi nemici siano l’aggiunta più importante alle arti e alle lettere americane da solo Dio sa quanti anni.

B.C., il cavernicolo raccontato da Johnny Hart dal 1958 al 2007, condivide con i suoi amici preistorici la strana condizione di vivere in un’era che – pur essendo primitiva – è costantemente sconvolta da piccole e grandi scoperte e invenzioni. L’età della pietra offre quindi uno sguardo sul mondo molto simile a quello di chi vive le trasformazioni del presente: lo spaesamento davanti alla ruota non è poi così diverso rispetto allo stupore di chi sfiora un tablet per la prima volta. La ricetta si ripete con Wizard of Id, striscia scritta dallo stesso Hart e disegnata da Brant Parker dal 1964, che ricolloca nel Medioevo il modello di racconto che aveva reso un successo la preistoria di B.C..

Accanto a queste strisce importanti, «Linus» pubblica altre serie statunitensi minori e dai passaggi decisamente più brevi e saltuari, quasi degli assaggi: Short Ribs di Frank O’Neill, Miss Peach di Mell Lazarus, Oscar di Dave Rusch, Eek & Meek di Howie Schneider, The Born Loser di Art Sansom (della cui indebita pubblicazione la redazione si scuserà sul numero successivo a quello dell’unica apparizione), Pauline McPeril di Fulton e Jack Rickard, Kerry Drake di Alfred Andriola (e dello sceneggiatore non accreditato Allen Saunders) e Green Berets di Robin Moore e Joe Kubert.
Anche la stampa quotidiana inglese si dimostra un bacino interessante per l’acquisizione di strisce. Da lì provengono Jeff Hawke e le sporadiche apparizioni di Fred Basset di Alex Graham e dei Segugi (The Seekers) di Les Lilley e John M. Burns.

Jeff Hawke è una serie di fantascienza realizzata da Sidney Jordan tra il 1955 e il 1974. Nel ventennio di ininterrotta pubblicazione, l’autore rinuncia immediatamente allo sguardo ingenuo e avventuroso dei più noti predecessori (Buck Rogers e Flash Gordon, solo per fare i due esempi più eclatanti) e abbraccia la trasformazione che in quel periodo attraversa la science fiction americana e inglese. L’intervento dello sceneggiatore William Patterson spazza via quel che resta dell’ingenuità presente nei primi due anni di strisce, sostituita da ottimi dialoghi che mettono ai margini l’azione, da alieni in odore di mitologia e da una soffusa e pervasiva atmosfera erotica.
Oltre a pescare nel presente del fumetto internazionale, «Linus» non disdegna il recupero della tradizione, selezionando con gran cura alcune tra le migliori pagine dei giornaletti del passato. Fin dal primo numero, a corredo di un articolo dedicato ad Antonio Rubino, disegnatore di punta del «Corriere dei Piccoli», viene proposta una scelta di tavole e di illustrazioni. Tra ricordo e nostalgia, la campionatura delle memorie d’infanzia prosegue, numero dopo numero, esplodendo nella pubblicazione di episodi che gettano uno sguardo affettuoso e nostalgico al passato. E accanto alle pagine e alle illustrazioni scelte, nei primi anni di «Linus» iniziano a sfilare lunghi episodi di personaggi appartenenti a un passato caro agli appassionati: Topolino contro il gatto Nip attribuito a Walt Disney ma, in realtà, di Floyd Gottfredson, L’ispettore Wade tratto da Edgar Wallace e disegnato da Lyman Anderson, Audax guardia a cavallo della pattuglia volante di Zane Grey e Allen Dean, Pippo nel Texas di Benito Jacovitti, I tre lupini di mare (Just Kids) di Ad Carter, La rondine dei mari di N.A. Fonsky, Felix firmato Pat Sullivan, ma di Otto Messmer, Barney Google di Billy de Beck e Little Orphan Annie di Harold Gray.

(Nella foto: la copertina del primo numero di Linus, © Baldini e Castoldi)