La vita da Chelsea Manning
La prima intervista dal carcere dopo il cambio di genere della militare condannata per aver passato informazioni a Wikileaks
Chelsea Manning, soldato statunitense condannato per aver fornito a Wikileaks centinaia di migliaia di documenti e materiali riservati diffusi e pubblicati su Internet e che nell’agosto del 2013 aveva fatto sapere in una lettera di non volersi più chiamare Bradley Manning, ha raccontato per la prima volta la sua vita in carcere e il suo desiderio di vivere come una donna a una giornalista di Cosmopolitan. L’intervista è stata fatta via mail, poiché ai militari detenuti non è consentito parlare con i giornalisti per telefono o di persona.
Manning, che ora ha 27 anni, è stata condannata a 35 anni di carcere che sta scontando nella prigione militare di Fort Leavenworth, carcere maschile in Kansas e unica prigione militare per soldati condannati a più di dieci anni di carcere. Il sistema carcerario americano prevede che i detenuti transessuali che non si sono operati ai genitali vivano insieme ai compagni del loro sesso di nascita. Durante il processo, i problemi di identità di genere di Manning erano stati molto discussi e presentati dalla difesa come un’attenuante per aver passato i documenti riservati.
Dopo la condanna, Manning ha ottenuto legalmente il cambio di nome da Bradley a Chelsea e i medici militari gli hanno diagnosticato la disforia di genere, condizione in cui la percezione di genere di una persona è diversa da quella biologica. Ora Manning riceve un trattamento ormonale (dopo aver fatto causa all’esercito americano per non averle garantito il diritto alle cure per il disturbo dell’identità di genere), le è consentito di truccarsi e di indossare biancheria intima femminile, ma non di tenere i capelli lunghi.
A Cosmopolitan ha raccontato di aver trascorso gran parte della sua vita sentendosi “fuori luogo”: «Ho passato un sacco di tempo a negare a me stessa l’idea di poter essere gay o trans. Tra i 14 e i 16 anni ero soprattutto convinta di stare semplicemente passando attraverso delle fasi. Sono fuggita mentalmente, soprattutto di notte attraverso Internet e il labirinto delle comunicazioni anonime. Non so come tutto questo abbia plasmato la mia vita e chi sono, ma è stato un fattore che ha di certo influito nelle decisioni che ho preso, anche quando mi sono arruolata nell’esercito». Manning ricorda che si vestiva di nascosto come una bambina già quando aveva 5 o 6 anni, in camera di sua sorella maggiore: «Avevo sempre saputo di essere “diverso”. Non l’ho davvero capito fino a quando non sono diventata più grande. Ma c’era sempre questo presentimento che qualcosa in me era “sbagliato”. Non ho mai saputo come parlarne. Ricordo solo la sensazione di terrore che provavo per quello che sarebbe successo se qualcuno lo avesse scoperto».
Manning, che è cresciuta in una zona rurale di Crescent, Oklahoma, ha ricordato la vita familiare piuttosto dura, con i genitori spesso lontani e sprezzanti, le prese in giro a scuola e gli scontri con i compagni. Poi, dopo la separazione dei genitori, si è trasferita con la madre in Galles, ha iniziato le scuole superiori e nel 2005 è tornata a casa del padre. Dopo aver iniziato a lavorare come programmatrice e progettista di software, si è trasferita vicino a Washington, iscrivendosi al Montgomery College e lavorando per potersi mantenere. Il pensiero di vivere come una donna, era sempre presente, ma, ha spiegato, «i terapisti costavano un sacco di soldi. E anche se ho cominciato a vedere una psicologa con il preciso intento di esplorare la mia identità trans, fui presa dal panico e non ho mai affrontato l’argomento».
L’idea di arruolarsi le è stata suggerita dal padre: «Stavo seguendo la guerra in Iraq. Ho cominciato a chiedermi se potessi dare una mano». Ma anche un altro motivo l’ha spinta a intraprendere la carriera militare, scrive la giornalista di Cosmopolitan «Forse l’ambiente macho l’avrebbe distratta dai suoi pensieri». Manning ha raccontato la formazione di base in Missouri nel 2007 («Sono stata assolutamente colta alla sprovvista per l’intensità»), le umiliazioni ricevute («Uno dei sergenti istruttori che aveva fatto l’inventario dei miei effetti personali fece dei commenti sul mio telefono: era rosa»), gli atti di bullismo e il suo primo amore con uno studente della Brandeis University: «Mi sono innamorata di lui. Non era la mia prima relazione, ma era sicuramente la più importate». Quella persona fu la prima a cui Manning raccontò il proprio desiderio di essere una donna.
Nel frattempo proseguì la sua carriera come analista dell’intelligence statunitense con conseguenti indagini delle autorità di vigilanza sulla sua vita personale («Mi sentivo frustrata, stavano scavando più a fondo perché facevo resistenza alle loro domande»). All’epoca era ancora in vigore il Dont’ask don’t tell, la legge federale americana che impediva ai soldati di dichiarare la propria omosessualità, e Manning non aveva nessuno con cui parlare dei propri dubbi e delle proprie preoccupazioni. Venne poi il momento in cui venne inviata a Baghdad, momento che Manning descrive come una svolta: «Quell’esperienza mi ha resa assolutamente certa di ciò che sono. Avere a che fare con risme e risme di mail, promemoria e segnalazioni di persone che morivano intorno a me ogni giorno, mi ha fatto capire quanto sia breve e preziosa la nostra vita (…) Quale giorno migliore se non oggi per iniziare a essere noi stessi? Quando sono andata in congedo a gennaio 2010, mi presentai vestita come una donna in pubblico. Non sarei stata in grado di farlo, prima di essere inviata in una zona di combattimento».
Nell’intervista, Manning si è rifiutata di rispondere a domande circa la massiccia fuga di documenti e si è rifiutata di fare commenti su Julian Assange. Ha detto però di sentirsi sollevata di aver annunciato durante il processo e dopo la condanna di sentirsi una donna: «Onestamente, non sono preoccupata per quello che la gente là fuori potrebbe pensare di me. Cerco solo di essere me stessa». A Fort Leavenworth ha una cella con due finestre da cui può vedere «gli alberi e le colline e il cielo blu e tutte le cose al di là del filo spinato». Trascorre molto del suo tempo nella biblioteca del carcere, in palestra e nel laboratorio di falegnameria. Dice che non ha dovuto affrontare problemi di molestie da parte dei detenuti e di aver anzi trovato qualcuno con cui confidarsi («Ci sono persone molto intelligenti e sofisticate nelle carceri di tutta l’America»). Riceve le visite dei familiari e di alcuni amici. Soprattutto riceve lettere da persone transgender di tutto il mondo: «Sono sempre lusingata che dicano di avere avuto da me un’ispirazione, in qualche modo. Ma sinceramente, credo che sia il contrario».
Manning potrebbe ottenere la libertà vigilata tra sette anni: «Quando ero un bambino, volevo essere in affari o in politica, come amministratore delegato di una grande società o come senatore degli Stati Uniti. Ci sono stati anche momenti in cui avrei voluto essere un astronauta o un ufficiale militare. Sì, ci sono stati momenti in cui ho pensato di fare tutto questo come una donna. Quando sei un bambino che sogna, tutto ti sembra possibile». Alla domanda se la sua vita avesse potuto essere diversa se avesse sentito che poteva uscire prima allo scoperto, ha risposto: «Penso che molte opportunità sarebbero state più facili per me se mi fossi sentita più a mio agio e più fiduciosa nel mio corpo, e non terrorizzata del mondo intorno a me».