Lee Kuan Yew, l’uomo che costruì Singapore
Chi era il leader politico unico al mondo che è morto stanotte: trasformò un'incasinata colonia britannica in una città-stato ricchissima e ordinata, ma con leggi dure e controverse
di William Branigin – Washington Post
Lee Kuan Yew, la cui leadership efficiente e talvolta dura ha trasformato Singapore da una caotica colonia britannica in uno degli stati più prosperi e ordinati al mondo, è morto il 23 marzo in un ospedale di Singapore. Aveva 91 anni. Lee era ricoverato da febbraio per una polmonite; la sua morte è stata annunciata dal primo ministro.
Primo ministro dal 1959 al 1990, Lee guidò Singapore verso l’indipendenza dal Regno Unito, poi attraverso una fusione e una successiva separazione con la vicina Malesia e un periodo di grosse tensioni razziali, prima di trasformare la città-stato del Sud-est asiatico in una delle cosiddette “tigri” economiche della regione. Quando si dimise, dopo 31 anni al governo, era il primo ministro in carica da più tempo al mondo. Lee ha avuto anche importanti ruoli di consulenza nei governi di due suoi successori – uno di questi era suo figlio – prima di dimettersi nel maggio del 2011. In tutto ha trascorso 52 anni al governo, durante i quali Singapore è ascesa fino a diventare uno dei più importanti centri finanziari e uno dei porti più trafficati del pianeta, arrivando ad avere il terzo PIL pro capite al mondo. Anche dopo aver abbandonato il potere aveva mantenuto una smisurata influenza, e in molti cercavano i suoi consigli su materie che andavano dalla stabilità politica alla crescita economica fino ai rapporti con la Cina.
La sua schiettezza certe volte lo mise nei guai, per esempio quando parlava di cosa avrebbero dovuto fare gli altri paesi secondi lui o quando certi suoi commenti fatti in privato al corpo diplomatico statunitense furono resi pubblici. Secondo un cable diplomatico diffuso da Wikileaks, nel 2007 Lee disse che trattare con la giunta militare della Birmania era come “parlare coi morti”. Nel 2009, in un altro cable riservato, sembrò riferirsi ai funzionari della Corea del Nord come “matti psicopatici il cui vecchio flaccido leader va in giro cercando adulazione negli stadi”. Turbato dalle violente rivolte che avvennero a Singapore negli anni Sessanta, Lee adottò misure coraggiose per sedare le tensioni razziali e religiose tra gli abitanti di Singapore di etnia cinese, malese e indiana. Impose l’integrazione per legge, stabilendo rigidamente che i singaporiani di differenti etnie vivessero, studiassero e lavorassero insieme.
Lee aveva studiato legge nel Regno Unito. Il suo stile di governo era considerato da molti lungimirante, onesto ed efficiente, ma anche prepotente e paternalistico. Il risultato era un paese rigidamente rispettoso delle regole, ma che i visitatori e i turisti trovavano spesso irregimentato, sterile e noioso. I suoi critici lo accusavano anche di permettere detenzioni senza accuse né processi, di censurare la stampa, di tormentare i suoi oppositori politici e di guardare dall’altra parte rispetto agli abusi della polizia. Alcuni singaporiani si lamentavano anche di come il suo governo li trattasse come dei bambini, per esempio impedendo ai cittadini di possedere delle parabole satellitari, oppure multando e umiliando chi fosse stato sorpreso a non scaricare l’acqua nei bagni pubblici, o persino imponendo un divieto di usare gomme da masticare. Quando un giornalista della BBC gli disse che masticare chewing-gum poteva aiutare le persone a sviluppare la loro creatività, Lee rispose: «Se riesci a pensare solo se mastichi, prova con una banana».
Lee difendeva fermamente il suo approccio duro contro gli oppositori politici, sostenendo che in una nazione come Singapore, a maggioranza etnica cinese ma con corpose minoranze malesi e indiane, quella inflessibilità fosse necessaria. «Qui nessuno ha dubbi sul fatto che se qualcuno mi attacca, io prenderò un tirapugni e lo chiuderò all’angolo», disse una volta secondo una biografia uscita nel 1997. «Se invece pensi di potermi fare più male di quanto possa fartene io, provaci. Non c’è altro modo di governare una società cinese».
Harry Lee Kuan Yew era nato il 16 settembre del 1923 a Singapore, che all’epoca era la colonia britannica dove suo nonno era emigrato dal Guangdong cinese nel 1862. Suo padre, Lee Chin Koon, era un magazziniere per la Shell. Sua madre, Chua Jim Neo, era la figlia di un ricco uomo d’affari e divenne una famosa maestra di cucina. Per i primi tre decenni della sua vita Lee era noto come “Harry Lee”, ma decise di mollare il suo nome anglofono all’inizio della sua ascesa politica. Studiò al Raffles College di Singapore ma i suoi progetti di studio furono interrotti dalla Seconda guerra mondiale e dall’invasione del Giappone. Lee imparò il giapponese e lavorò come traduttore e redattore per il settore propaganda degli occupanti.
L’occupazione giapponese del 1942-1945 ebbe un profondo impatto sul giovane Lee, che raccontò di come una volta venne schiaffeggiato e costretto a inginocchiarsi perché non si era inchinato davanti a un soldato giapponese. Come altri giovani singaporiani dell’epoca, disse, venne fuori da quell’esperienza «determinato come non mai a far valere il principio che nessuno, né i giapponesi né gli inglesi, avessero il diritto di prenderci a calci. Determinato a dimostrare che potessimo governarci da soli». L’occupazione gli insegnò qualcosa anche sul potere e sull’efficacia delle punizioni brutali come deterrente contro il crimine, scrisse nelle sue memorie.
Dopo la guerra, Lee si laureò all’università di Cambridge, dove corteggiò Kwa Geok Choo, una collega di corso che aveva già conosciuto a Singapore. Si sposarono segretamente a Londra nel 1947 e poi formalmente a Singapore nel 1950, dove aprirono uno studio legale insieme. Ebbero due figli e una figlia: Lee Hsien Loong diventò primo ministro nel 2004, Lee Hsien Yang è capo dell’aviazione civile dal 2009, Lee Wei Ling è capo dell’istituto nazionale di neuroscienze. Gli sopravvivono sette nipoti; sua moglie invece è morta nel 2010 a 89 anni.
Nel 1954, insieme a un gruppo di singaporiani laureati in università britanniche, Lee costituì il Partito di Azione Popolare, un partito populista e socialista che chiedeva l’indipendenza dal Regno Unito, che aveva rioccupato Singapore dopo la guerra. L’anno seguente fu eletto al seggio parlamentare locale che mantenne per oltre cinquant’anni. Divenne il primo premier di Singapore nel 1959, a capo di un governo che aveva autonomia su tutto salvo la difesa e gli affari esteri, che rimanevano sotto il controllo del Regno Unito.
Nel 1961 la vicina Malesia propose una fusione per cui Singapore sarebbe diventata parte della nuova “Federazione della Malesia”. Lee aderì entusiasticamente: vide la fusione come il modo per rendere economicamente e politicamente sostenibile la sua isola piccola e povera di risorse. Gli elettori sostennero la fusione in un referendum e il 31 agosto del 1963 Lee dichiarò l’indipendenza dal Regno Unito, aprendo la strada alla formazione della federazione. Le rivolte razziali e gli scontri tra cinesi e malesi del 1964, durante le quali 34 persone furono uccise e oltre 560 furono ferite, esacerbarono lo scontro politico tra il partito singaporiano di Lee e i governanti della Malesia, e portarono il primo ministro malese Tunku Abdul Rahman a espellere Singapore dalla federazione. In una rara esposizione pubblica dei suoi sentimenti, Lee annunciò commosso la separazione dalla Malesia in un discorso televisivo nell’agosto del 1965, descrivendola come «un momento di angoscia» che «ruppe letteralmente tutto quello in cui credevamo». Singapore divenne così l’unico paese a ottenere la completa indipendenza contro la sua volontà.
Lee si concentrò sul rafforzamento e la ricostruzione di Singapore, adottando leggi a favore delle imprese e del libero mercato. Approvò dure norme contro la corruzione e lanciò un’ambiziosa riforma urbanistica, abbattendo le squallide baraccopoli della città e imponendo l’integrazione multiculturale nel tentativo di creare un’identità nazionale singaporiana. Allo stesso tempo, però, mostrò poca tolleranza per il dissenso. Dato che Singapore è «una barca molto stretta», disse, bisognava avvalersi della legge precedente all’indipendenza che permetteva di ordinare arresti e incarcerazioni senza processo. «Dobbiamo incarcerare queste persone, che siano comunisti, che siano sciovinisti delle lingue, che siano estremisti religiosi», disse nel 1986. «Se non lo facciamo, il paese andrà in rovina». Lee era anche accusato di usare la legge sulla diffamazione per fare causa ai suoi oppositori e ridurli sul lastrico.
Sotto il governo di Lee, Singapore approvò alcune tra le più rigide leggi al mondo per il controllo delle armi e della droga, introducendo l’obbligo di pena di morte per i colpevoli. Le condanne all’impiccagione erano emesse automaticamente per chi comprava o vendeva poco più di 25 grammi di cocaina, o per chi sparava un colpo d’arma da fuoco commettendo un altro reato, per esempio una rapina, a prescindere dal fatto che qualcuno fosse stato colpito o no. Risultato: Singapore praticamente non ha reati a mano armata né problemi di droghe, ma ha anche uno dei tassi più alti di condanne a morte al mondo. Lee era anche un convinto sostenitore delle punizioni corporali, soprattutto le bastonate. Lo zelo per le punizioni corporali portò nel 1994 a uno scontro diplomatico con gli Stati Uniti, quando un adolescente americano, Michael Fay, fu condannato alle bastonate perché responsabile di atti vandalici.
La sua passione per la cosiddetta “ingegneria sociale” gli portò parecchie critiche dall’estero e dalle donne di Singapore. Negli anni Ottanta mise in piedi l’unica agenzia matrimoniale governativa al mondo, allo scopo di trovare dei mariti per le sempre più donne singaporiane ben istruite e nubili. Un altro programma governativo forniva incentivi alle madri laureate perché avessero sempre più bambini, contraddicendo una precedente campagna per il controllo delle nascite.
Alcune delle sue frasi più controverse hanno riguardato la democrazia e la sua applicazione alle società asiatiche. «Nella scelta tra essere amato ed essere temuto, ho sempre pensato che avesse ragione Machiavelli», disse al suo biografo. «Se nessuno ha paura di me, allora non valgo niente».