Le proteste degli aborigeni in Australia
Il governo vuole eliminare 150 comunità in cui vivono, dicendo che hanno troppi problemi e costi elevati, ma è una questione irrisolta che si trascina da secoli
Negli ultimi giorni migliaia di aborigeni australiani hanno organizzato manifestazioni di protesta contro il primo ministro conservatore Tony Abbott, eletto nel settembre del 2013, che si è detto a favore della chiusura di più di cento villaggi indigeni nella parte occidentale del paese a causa del loro costo per i contribuenti australiani. L’integrazione degli aborigeni è un tema di cui si discute da tempo e ancora una questione irrisolta: in Australia sono circa 670 mila e rappresentano il 3 per cento della popolazione.
Australians March to Save Aboriginal Communities – http://t.co/TZNGIWkXye – @soit_goes – pic.twitter.com/R1PpX1rROJ #SOSBLAKAUSTRALIA
— Revolution News (@NewsRevo) 20 Marzo 2015
Le proteste degli ultimi giorni fanno seguito alla pubblicazione dell’ultimo rapporto sulle ineguaglianze tra aborigeni e resto della popolazione australiana. Risulta che gli aborigeni abbiano un’aspettativa di vita di circa dieci anni inferiore agli altri australiani, che il tasso di mortalità infantile sia doppio, che ci sia un alto livello di diffusione di malattie croniche (dovute soprattutto al fumo e all’alcol), che ci sia un basso livello di scolarizzazione e che sia molto scarso il loro accesso ai servizi sanitari di base.
Gli aborigeni sono presenti sul territorio australiano da almeno 40 mila anni. La maggior parte delle comunità vive ancora oggi in aree remote, lontane dalle grandi città e dai centri economici, spesso in condizioni molto difficili e, come ha detto Abbott, «senza servizi essenziali come energia elettrica, gas, acqua, alloggi, trasporti, sanità e istruzione»: sopravvivono solo grazie agli aiuti governativi. Gli aborigeni denunciano però lo sfruttamento dei territori che gli spetterebbero di diritto, così come le risorse presenti su quei territori. Per tutto questo, spiegano, non hanno solo dovuto pagare il prezzo della privazione della loro terra, ma anche il tentativo in atto da molti anni di distruzione della loro cultura. Dicono che il governo vorrebbe istituzionalizzarli e costringerli a vivere nelle città, ma non è disposto a migliorare le loro condizioni di vita nei luoghi dove vogliono continuare ad abitare.
Lo scorso novembre il governo australiano aveva presentato un piano che prevede la chiusura di 150 piccole comunità nella parte occidentale del paese – coinvolgendo circa 20 mila persone –ritenute «non vitali» dal primo ministro Abbott, che era tornato sulla vicenda all’inizio di marzo dicendo: «Non possiamo continuamente sovvenzionare delle scelte di vita, se tali scelte di vita non permettono ai beneficiari di partecipare pienamente alla società australiana». I contribuenti, aveva sostenuto, «pagano le tasse per fornire servizi decenti» a condizione però «che il loro sacrificio sia ripagato in modo altrettanto decente». La frase “scelta di vita” aveva suscitato numerose critiche e la richiesta di scuse da parte della comunità aborigena e delle opposizioni di governo: non si tratta di “scelta di vita”, hanno rivendicato, ma di un “modo differente di vivere”. Tammy Solonec, responsabile locale di Amnesty International, ha spiegato che la formula scelta da Abbott dimostra «un’ignoranza di fondo» del governo sulla questione: «Vivere in villaggi remoti non è una questione di scelta, è l’essenza della cultura aborigena, che comporta un legame profondo con la terra dove si è nati, dove si vive e con la quale si è creato un profondo legame spirituale».
Da quando è stato eletto Tony Abbott, che ha simbolicamente deciso di collocare per una settimana all’anno il suo ufficio in una comunità aborigena, ha fatto diverse dichiarazioni molto discusse sugli aborigeni e la cultura australiana. Una volta ha descritto l’Australia come un territorio «senza niente, se non deserto», prima dello sbarco dei primi colonizzatori inglesi nella Baia di Sydney, avvenuto il 26 gennaio 1788. L’Australia Day, l’anniversario dello sbarco, è considerato un giorno di festa: ci sono fuochi d’artificio, vengono consegnate le più alte onorificenze pubbliche, e il primo ministro tiene solitamente un discorso alla nazione. Il 26 gennaio, però, per gli aborigeni australiani è l’Invasion Day, il Giorno dell’Invasione, che fornisce la versione della storia dei loro antenati, maltrattati, soppressi ed espropriati delle loro terre dagli inglesi. La discriminazione e il tentativo di assimilazione forzata è proseguito fino al secolo scorso: negli anni Trenta, ma anche negli Sessanta, venne per esempio perseguita la cosiddetta “politica di assimilazione biologica”: centinaia di bambini vennero prelevati dalle loro comunità, separati dai genitori e educati secondo i principi della cultura occidentale.
Le proteste degli aborigeni si sono intensificate negli anni Settanta, dopo che il governo di William McMahon aveva rifiutato di concedere loro il possesso delle terre che occupavano. Il governo proponeva di concederne solo l’usufrutto a patto che venissero utilizzate per attività proficue dal punto di vista sociale o economico. Da allora sono stati fatti numerosi passi avanti per il riconoscimento dei diritti degli indigeni: nel 1976 Sir Douglas Nicholls divenne governatore dell’Australia del Sud, la prima persona aborigena ad avere un incarico così alto. Nel 1999 il Parlamento federale approvò una mozione di riconciliazione che definiva i maltrattamenti degli aborigeni “il capitolo più vergognoso della nostra storia nazionale”. Nel 2000 l’atleta aborigena Cathy Freeman accese la fiamma olimpica durante le Olimpiadi di Sydney. Il 13 febbraio 2008 il primo ministro laburista Kevin Rudd chiese pubblicamente scusa agli aborigeni per il comportamento del governo australiano. Nel 2010 Ken Wyatt del partito liberale fu il primo indigeno eletto nel Parlamento australiano.