Bisogna abolire il carcere, dice Luigi Manconi
Non serve a rieducare i condannati, come dice la Costituzione, non serve a produrre sicurezza, non serve nemmeno a punirli: e un simile fallimento impone di pensare alle alternative
Luigi Manconi, rispettato sociologo, esperto di diritti umani e parlamentare del Partito Democratico, ha scritto su Internazionale del problema dei suicidi nelle carceri italiane e più in generale delle condizioni inumane a cui sono spesso sottoposti i detenuti. Anzi, ancora più in generale, della provata inefficacia delle carceri come strumento per rieducare i condannati – cioè quanto prescrive la Costituzione – e garantire la sicurezza. Manconi scrive che in Italia “non esiste la pena di morte, esiste la morte per pena” e che si dovrebbe ripensare la misura detentiva in sé, che tra l’altro non è nemmeno inclusa o citata dalla Costituzione italiana. Il carcere non funziona, scrive Manconi, soprattutto perché non “costituisce un efficace strumento di punizione” e anzi produce l’effetto opposto a quello a cui dovrebbe mirare: al posto che rieducare, inserisce ancora di più i detenuti in un sistema di illegalità.
Mercoledì 11 marzo un internato dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto si è tolto la vita impiccandosi nel bagno. Nello stesso giorno, appena più in là, un detenuto del carcere di Sciacca ha preso la stessa decisione.
Sono solo gli ultimi due componenti della lunga teoria di morti che attraversa le strutture detentive del nostro paese. Terminare la propria esistenza in carcere non costituisce un fatto episodico, bensì rappresenta un vero e proprio parametro e un asse portante dell’attuale sistema della reclusione.
Se non esiste la pena di morte, esiste la morte per pena. Nel corso del 2014, i suicidi sono stati 44, e 88 i decessi per “cause naturali”; nei primi mesi del 2015, nove i suicidi e nove i morti per altre ragioni. Proprio per questo occorre pensare (e finalmente realizzare) il superamento del regime carcere. Anche se nella mentalità collettiva non è immaginabile una pena che prescinda dalla reclusione, non è sempre stato così.
Sono state le leggi ordinarie, modificabili da qualsiasi maggioranza parlamentare, a introdurre l’idea che la risposta sanzionatoria dello stato alla violazione delle leggi penali debba consistere nella privazione della libertà, all’interno di un perimetro chiuso e di una cella serrata, per un determinato periodo di tempo. E un simile concetto non lo si trova da nessun’altra parte e tanto meno nella costituzione italiana.
È diventato senso comune e norma di legge, per una inveterata abitudine, che risale a qualche secolo fa e che è stata legittimata dall’autorità di Cesare Beccaria, preoccupato delle pene efferate che incrudelivano sui corpi nell’ancien régime. In quel contesto, dunque, il carcere era il male minore: una pena la cui “dolcezza” avrebbe fatto decadere le punizioni più atroci.
La nostra carta, all’articolo 27, dice che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La pena detentiva troppo frequentemente corrisponde di per sé a un trattamento contrario al senso di umanità, al punto di indurre il sospetto che essa sia – in sostanza – una pena inumana. E d’altra parte è incontestabile che la pena detentiva – nella grande maggioranza dei casi – non tende alla “rieducazione” del condannato, ma costituisce una sua degradazione fino a segnarne tragicamente il destino.
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– Luca Sofri: Sull’abolizione del carcere (2002)
foto: il carcere di Regina Coeli a Roma – Giulio Napolitano | LaPresse