L’Islanda e l’UE, una storia travagliata
Il governo ha ritirato la richiesta di adesione, rinnegando quanto deciso dal governo precedente che aveva portato il paese fuori dalla crisi: e domenica c'è stata una "grande" protesta a Reykjavik
La scorsa settimana l’Islanda ha annunciato di aver ritirato la sua domanda di adesione all’Unione Europea. Uno dei problemi principali tra Unione Europea e Islanda è la questione della pesca, principale attività economica dell’isola, che il governo non vuole sottomettere alla regolamentazione delle quote imposte da Bruxelles. Ma la decisione di non proseguire con l’adesione all’UE sembra essere legata soprattutto al cambio di governo: è infatti arrivata due anni dopo l’elezione di una coalizione di centro-destra guidata da Sigmundur Davíð Gunnlaugsson che aveva condotto la propria campagna elettorale proprio sulla promessa di terminare il processo di negoziato avviato nel 2009 dal governo di centrosinistra. Giovedì 12 marzo il ministro degli Affari Esteri islandese, Gunnar Bragi Sveinsson, ha fatto sapere che la decisione di interrompere il processo è stata comunicata alla Lettonia, che presiede il semestre dell’Unione dal primo gennaio, e anche alla Commissione europea: «Gli interessi dell’Islanda sono serviti meglio al di fuori dell’UE», ha detto.
Domenica circa 7 mila persone – sono tante: gli abitanti dell’Islanda sono in tutto 320.000: come se in Italia manifestassero davvero 1,3 milioni di persone – hanno partecipato a un corteo di protesta a Reykjavik contro la decisione di allontarsi dall’UE, organizzato dai partiti dell’opposizione che hanno denunciato il fatto che la sospensione dei negoziati è stata decisa senza consultare il parlamento che nel 2009 aveva votato a favore dell’entrata. Si tratta della manifestazione più grande da quelle del 2008 per chiedere le dimissioni del governo a causa della crisi economica. Una portavoce di Federica Mogherini, alto rappresentante UE per la politica estera, ha commentato dicendo semplicemente che si sta valutando il dossier islandese e che quindi «ci vorrà del tempo». Alcuni esperti costituzionali hanno comunque ipotizzato che la lettera inviata dal governo non abbia alcun significato formale finché non ha il sostegno dell’Althing, il parlamento unicamerale del paese.
I negoziati per l’adesione dell’Islanda all’UE furono votati nel 2009 dal Parlamento (guidato a quel tempo da una coalizione di centrosinistra): le tappe che l’Islanda aveva dovuto affrontare furono all’epoca più semplici rispetto a quelle riservate ad altri candidati, come la Serbia, la Turchia o la Bosnia. In teoria l’Islanda sarebbe dovuta diventare senza particolari problemi il ventinovesimo membro dell’Unione europea, dopo la Croazia, entrata nel 2013. Il caso islandese sembrava infatti più semplice di quello croato, dal momento che il paese aveva già soddisfatto circa il 70 per cento dei requisiti richiesti.
Il governo di allora e anche l’opinione pubblica erano favorevoli a un’adesione dell’Islanda, travolta dalla crisi finanziaria e bancaria del 2008 dopo che le tre maggiori banche del paese dichiararono il default su debiti per 85 miliardi di dollari. L’Europa, sei anni fa, era considerata come un’ancora di salvezza e l’euro come una cura per il deprezzamento della corona, che aveva perso fino al 50 per cento del suo valore. Fu il governo di coalizione di centrosinistra guidato da Jóhanna Sigurðardóttir (prima premier donna del paese) a cercare di fare fronte alla drammatica situazione. Sigurðardóttir gestì la crisi del settore bancario adottando anche una serie di misure di austerità necessarie per rispettare i parametri stabiliti dalle istituzioni internazionali, in cambio di aiuti economici.
Quelle misure – attorno alle quali nacquero anche molte leggende metropolitane, note anche in Italia – furono però molto contestate e alle elezioni dell’aprile 2013 vinse una coalizione di centrodestra formata dal Partito dell’Indipendenza islandese e dal Partito Progressista. I due partiti avevano fatto campagna elettorale dicendo di essere contrari all’ingresso del paese nell’Unione Europea. Queste idee erano sostenute dal fatto che l’Islanda – grazie agli accordi di libero scambio esistenti con l’UE e con l’adesione al trattato di Schengen – godeva già dei benefici di cui aveva bisogno per risollevarsi economicamente dalla disastrosa crisi del 2008 e dalla successiva recessione. Può soprattutto già esportare nell’Unione i suoi prodotti senza dazi o altri oneri.