La storia di Tom Schweich, politico suicida
Un candidato a governatore del Missouri si è ucciso dopo giorni di duri attacchi personali; il Washington Post si chiede perché oggi una brava persona dovrebbe mettersi a fare politica, visto quel che comporta
di Kathleen Parker – Washington Post
«Almeno non è morto nessuno», sentiamo spesso dire in politica per giustificare qualche storia incresciosa. Per esempio: «Sì, forse Obama non ha detto completamente la verità quando diceva che con la riforma sanitaria tutti si sarebbero potuti tenere il loro medico. Comunque non è morto nessuno, non esageriamo». Oppure: «Beh, sì, abbiamo detto delle cose cattive su quel politico, ma le può sopportare. Le parole non sono letali». Con il suicidio della scorsa settimana di Tom Schweich, revisore dei conti del Missouri e candidato a governatore, dovremmo forse mettere da parte questo modo di dire. Le parole fanno male e, in qualche tragico caso, uccidono.
Schweich, un Repubblicano che aveva appena cominciato a concorrere per diventare governatore in Missouri, era stato attaccato da un comitato politico che si definisce ingannevolmente “Cittadini per l’Equità”. Questi comitati, di cui è spesso difficile identificare i referenti politici, possono raccogliere fondi senza indicare precisamente i benefattori e possono investirli in spot e campagne molto duri senza costringere i loro finanziatori ad assumersi delle responsabilità. In una pessima e sgradevole pubblicità radiofonica diffusa da questo comitato, il narratore imita il personaggio di Frank Underwood della serie tv House of Cards e commenta l’ingresso di Schweich in politica. La pubblicità dice: «Tom Schweich, vi piace? No. È un candidato debole per fare il governatore? Assolutamente, basta guardarlo. Potrebbe essere facilmente confuso per il vice sceriffo di Mayberry… Se Schweich vincerà le primarie per i Repubblicani, lo schiacceremo velocemente come il piccolo insetto che è e metteremo al suo posto il nostro candidato, Chris Koster». Affascinante. Schweich, che era stato molto lodato dai suoi colleghi per il suo lavoro impeccabile come revisore dei conti dello Stato e per essere un buon cristiano che si comporta come tale, era anche oggetto di una serie di “voci”, messe in giro strumentalmente per indebolirlo, che lo accusavano di essere ebreo.
È inquietante che nell’America del Ventunesimo secolo qualcuno pensi che si possano convincere gli elettori con pregiudizi antisemiti. In realtà Schweich aveva antenati ebrei da parte del nonno, ma era un cristiano episcopale: per quanto sia assurdo dover perdere tempo a fare questa distinzione. Il fatto che la religione venga usata come una ragione per votare contro una persona qualificata è nauseante. La stessa cosa si può dire riguardo al colore della pelle, al genere o a qualsiasi pregiudizio simile, in un’era teoricamente illuminata come la nostra. Schweich aveva detto pubblicamente che secondo lui quelle voci erano state fatte circolare dal segretario locale dei Repubblicani, John Hancock, allo scopo di favorire la sua avversaria, appoggiata dall’establishment del partito.
Il problema è che Schweich non aveva prove contro Hancock. Nessuno, incluso il mentore e migliore amico di Schweich, l’ex senatore americano John Danforth – che ora è un prete episcopale – pensava che fosse una buona idea parlare pubblicamente dei suoi sospetti. Schweich però soffriva molto questi attacchi personali e il 26 febbraio aveva chiamato un giornalista per fissare un’intervista. Poco dopo quella telefonata si è puntato una pistola alla testa e si è ucciso, mentre sua moglie era nelle vicinanze. Ci sono ancora buchi e dubbi su questa storia. Ma sappiamo che alle 9:16 del mattino Schweich aveva chiamato un giornalista di Associated Press per chiedergli di venire intorno alle 14:30 a casa sua per un’intervista. Sappiamo che alle 9:35 il giornalista ha richiamato per confermare l’appuntamento e Schweich era vivo. E sappiamo che alle 9:48 la polizia ha ricevuto una telefonata di emergenza da casa di Schweich.
Cos’è successo in quei tredici minuti? Cosa ha portato Schweich, laureato in legge a Yale e Harvard, a suicidarsi? Il bullismo politico? C’era qualcos’altro di cui non sappiamo niente? Un’altra telefonata? Una minaccia? Nel suo ricordo di Schweich, al funerale di martedì 3 marzo, il suo amico John Danforth ha criticato a lungo il pessimo stato in cui si trova la politica americana: «Sentiamo dire spesso che le parole non possono fare male. Ma è falso. Nel discorso sulla montagna, Gesù ha detto esattamente il contrario. Le parole per Gesù possono essere l’equivalente morale dell’omicidio».
Non sappiamo cosa ha portato Schweich a togliersi la vita. Sappiamo che alcune persone sopportano le critiche meglio di altre. Le donne che si sono costruite un profilo pubblico forse sono le più toste di tutte, data l’intensità e il contenuto delle critiche a cui vengono sottoposte: io potrei riempire un libro con tutti gli insulti che ho ricevuto nei miei 27 anni da giornalista; probabilmente Hillary Clinton potrebbe riempirci una libreria. La politica è sempre stata uno sport sanguinoso, cosa che alcuni trovano degno di vanto. Ma oggi che l’America ha perso un uomo buono e un buon politico, che era considerato un’ispirazione per il modo in cui faceva politica e per la sua vita privata, dobbiamo affrontare una domanda che ha una risposta implicita: “Perché mai oggi una brava persona dovrebbe volersi candidare per una carica pubblica?”. Infatti.
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