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  • Domenica 1 marzo 2015

“Homo pluralis”

Come sono – e saranno – gli esseri umani adattati all’evoluzione tecnologica, raccontato nel nuovo libro di Luca De Biase

È uscito per Codice Edizioni il libro Homo pluralis. Essere umani nell’era tecnologica, di Luca De Biase, giornalista e scrittore esperto di innovazione tecnologica e nuovi media. Di fronte all’evoluzione digitale continua, De Biase analizza nel libro come gli esseri umani debbano adattarsi a una realtà in perenne cambiamento in cui il ruolo delle macchine assume sempre più importanza, per riuscire a mantenere il loro ruolo centrale nell’ambiente digitale.

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L’elegante macchinetta che David Rose indossa, allacciata all’abbottonatura della sua maglia, si chiama narrative clip. Scatta una foto ogni trenta secondi e la localizza grazie al GPS incorporato, scarica le immagini sul computer, crea e organizza un archivio online consultabile con una semplice app del cellulare. È stata costruita in Svezia da una startup fondata nel 2012 da Martin Källström, già amministratore delegato di Twingly, ed è pensata per documentare la vita quotidiana di chi la indossa e di chi gli sta vicino. E David Rose non poteva mancare di usarla per settimane: è un ricercatore all’MIT Media Lab di Cambridge, Massachusetts, e studia appunto come si svolge la vita quotidiana in un ambiente pieno di oggetti digitali – spesso inventati da lui e dal suo team – come ombrelli parlanti che avvertono quando sta per piovere, posate che registrano le abitudini alimentari, un secchio della spazzatura che ordina il cibo al negozio online, una tavola che mostra le foto pubblicate su Facebook, e così via.

Rose usa la narrative clip con l’idea di analizzare i metadati prodotti per monitorare quello che fa nel corso della giornata: «Quante volte sgranocchio qualcosa da mangiare, quante volte guardo il cellulare mentre sto giocando con i miei figli, quanto sono socievole, quanto sorridono i miei amici e quanto si sorride nel corso di una giornata». Insomma, un reportage continuo, dalle potenzialità conoscitive illimitate, analizzabile con un buon programma per computer, che racconta quello che si vede della vita. L’unico limite – come racconta Penelope Green, che ha intervistato Rose per il “New York Times” – è legato al fatto che sua moglie non gli permette di usare la narrative clip a casa. Rose può anche giocarci, ma soltanto al lavoro, perché a casa succedono le cose importanti: si vive la vita vera, si crescono i figli, si incontrano gli amici, si sviluppa la relazione di coppia. E in quello spazio non c’è posto per l’inquietante mediatizzazione di ogni istante della giornata.

È ciò che avviene in The Circle, il romanzo ironicamente angosciante di Dave Eggers sulla vita iperconnessa. La protagonista Mae Holland viene assunta in un’azienda fantastica, chiamata appunto The Circle, che sviluppa una piattaforma straordinaria in grado di connettere fra loro le persone, trovare ogni tipo di informazione, comprare qualunque cosa e molto di più. È un’azienda illuminata che investe enormi risorse per risolvere i problemi più grandi dell’umanità e le difficoltà più quotidiane dei singoli. Mae apprezza, prima timidamente, poi con crescente entusiasmo, cioè acriticamente. Per essere accolta in modo armonico nell’azienda e per fare carriera Mae deve socializzare, connettersi, contribuire, condividere. Passo dopo passo si allontana dai genitori e dagli amici per dedicarsi alla comunità e all’insieme indifferenziato delle persone connesse. Si dà sempre più generosamente alla causa fino ad accettare di indossare un registratore di immagini e suoni che pubblica tutto in diretta online. Una specie di narrative clip, in effetti. I suoi follower, già numerosi, diventano un pubblico gigantesco e la sua vita personale si fonde con il flusso di informazioni che lei stessa produce, finché non si accorge che alla base di tutto c’è una concezione devastante che Mae arriva a sintetizzare in tre asserzioni: «I segreti sono menzogne. Condividere è amare. La privacy è un furto».

Jeremy Bentham aveva già descritto una situazione simile nel suo settecentesco Panopticon: i suoi detenuti sapevano che ogni momento della loro giornata poteva essere osservato, dunque si comportavano come se fossero osservati in ogni momento. Ma mentre per Bentham l’osservatore era una sola persona di guardia, in The Circle è l’insieme di tutti i connessi. Come molti commentatori hanno osservato e come Byung-Chul Han ha sottolineato, l’estremismo della trasparenza è totalitario: uccide la libertà e modifica l’osservato imponendogli la consapevolezza di esserlo, uccidendo probabilmente anche la conoscenza di ciò che è autentico.

La moglie di David Rose vuole lasciare tutto questo fuori dalla porta di casa: una soluzione coerente con il concetto anglosassone di privacy, che tradizionalmente difende il diritto di ciascuno ad essere lasciato in pace a casa sua. Ma è anche qualcosa di più. È l’affermazione che le relazioni intime tra le persone non sono analoghe a quelle che si intrattengono in pubblico. Che il contesto domestico è diverso dalla piattaforma del network sociale. Che non siamo solo individui connessi, ma viviamo in una pluralità di dimensioni, collettive, pubbliche, private, intime, solitarie: e questa pluralità, questa multidimensionalità della vita va conosciuta, coltivata consapevolmente, riconoscendo il limite della società liquida, ipertrasparente, senza temere le distinzioni emotive, sentimentali, culturali, pratiche, architettoniche.

Saper distinguere è premessa per saper conoscere. Una sana dieta mediatica è premessa di libertà, contro l’obesità dell’information overload e dell’ipertrasparenza, che invece di nutrire i processi di comprensione e consapevolezza, li rallenta. Ma l’intuizione notevole sottesa dalla storia della moglie di Rose è soprattutto il luogo che lei sceglie per costruire la sua barriera: la porta che introduce alle relazioni intime, più intense, ai legami familiari e amicali. Perché proprio nei collegamenti più intensi si trovano le sorgenti della motivazione alla dimensione più umana dell’esistenza e si incontrano contemporaneamente i rischi maggiori di conformismo e disumanizzazione.

Nel commentare la famosa frase di Eric Schmidt sulla privacy («se c’è un’azione che si vuol tenere nascosta agli altri, forse non bisognerebbe proprio compierla»), Greenwald osserva che si tratta del ragionamento di chi ritiene che esistano solamente due tipi di persone: i buoni e i cattivi. Secondo quel tipo di visione, quelli che vogliono la privacy sarebbero i cattivi. Gli altri sono buoni. Giudizio generico, come se esistesse un solo punto di vista.

Non è così. Ci sono cose che tutti vogliono tenere per sé, ma non perché sono colpevoli. Non per niente, sia Schmidt sia Marc Zuckerberg spendono milioni per mantenere riservata la propria vita. E comunque, non darebbero via la password della loro posta elettronica.

In realtà, le persone vogliono uno spazio in cui essere lasciate al riparo dal giudizio degli altri. Perché quel giudizio di per sé le limita. Per non temere le invasioni della privacy occorrerebbe essere o sentirsi talmente poco interessanti e così conformisti e omogenei da non avere nessuna diversità da proteggere da nessun punto di vista. E del resto, come diceva Bentham, sentirsi osservati costantemente produce un comportamento autocontrollato, conforme a ciò che si immagina che gli altri si aspettino. Questo però riduce la creatività, il dissenso, la critica, l’opposizione, l’invenzione, lo stupore e molte delle qualità umane che fanno avanzare la cultura e la società. Le piattaforme online che costruiscono una socialità trasparente e una vita esposta sotto gli occhi di tutti conducono al conformismo, suggerisce Alessandro Acquisti, ricercatore alla Carnegie Mellon University. Occorre una diversa narrazione per mantenere viva la possibilità di riprogettare continuamente le piattaforme e difendere la diversità culturale e umana dalla circolazione indifferenziata di informazioni. Una narrazione basata sulla pluralità delle dimensioni della vita degli esseri umani.

Foto: © PIERGIORGIO PIRRONE / MARGOPHOTO / Lapresse