Le canzoni di Boyhood
Un critico musicale spiega perché questo film riesca a catturare perfettamente il modo in cui tutti sperimentiamo – volontariamente o no – la musica pop nella nostra vita
di Jack Hamilton - Slate
Michel Chion, compositore ed esperto di cinema, ha scritto che una delle più importanti conseguenze dell’arrivo del sonoro nei film fu il cambiamento del “tempo filmico”. Improvvisamente le immagini in movimento avevano una logica acustica, e quella logica aveva una dimensione temporale. Lo stridio di un inseguimento in macchina deve sentirsi quando si vede la macchina prendere una curva bruscamente; un colpo di pistola quando si vede il bagliore della canna: se il suono è fuori tempo anche solo di mezzo secondo, il realismo risulta rovinato.
Secondo Chion, il suono «ha reso il cinema un’arte del tempo» e la cinematografia è ora dipendente da un onnipotente orologio che prima esisteva solo vagamente. Negli anni, peraltro, il senso della percezione del tempo degli spettatori di un film si è profondamente legato all’ascolto del suo sonoro. Boyhood è un film che riguarda il tempo come non ne avevamo mai visti prima. Come ormai tutti sanno, Boyhood è stato girato a pezzi nel corso di dodici anni, raccontando il percorso di crescita di un ragazzo, Mason, verso l’età adulta: il suo più grande successo è l’abilità con cui riesce a trasmettere quella progressione del tempo in modo così fluido. David Edelstein del New York Magazine dopo aver visto il film ha scritto: «Ora so che i film possono fare qualcosa che fino alla settimana scorsa non credevo fossero in grado di fare: possono rendere visibile il tempo».
E, aggiungerei, anche udibile. Boyhood non è candidato a nessun Oscar per il suono o per la musica, mentre il suo principale avversario nella categoria “Miglior film”, Birdman, potrebbe vincere anche per il “Miglior sonoro” e il “Miglior montaggio sonoro”. Birdman è un film più caotico e rumoroso di Boyhood ma, come ha fatto notare il musicista Mark Harris, rientra perfettamente nella passione recente di Hollywood per film che riguardano altri film e le persone che li fanno. La definizione di Harris è perfetta: Birdman è un film «su qualcuno che spera di creare una cosa bella come Boyhood».
La creazione di Linklater è una di quelle in cui il suono vale tanto quanto l’immagine: Boyhood ha probabilmente offerto un’esperienza unica e con la più ricca trama acustica che si potesse avere tra i film dello scorso anno. Il suono e la musica hanno creato la struttura del film, il suo interno ed esterno, il risveglio e l’epifania dei suoi protagonisti. Si riescono a sentire le voci che cambiano, che crescono in nuovi stadi della giovinezza o dell’età adulta. Una ragazzina pre-adolescente canta a squarciagola la canzone di Britney Spears “Oops…I Did It Again” al suo inquieto fratello minore, mimandone le parole più che capendole; una classe di studenti delle elementari biascica il motto del Texas, ancora una volta mimandone le parole senza comprenderle fino in fondo. I gemiti eccitati dei bambini lasciano pian piano il posto ai borbottii di malumore degli adolescenti, mentre i discorsi indulgenti e esasperati dei genitori crescono verso la mezza età.
Sotto tutto questo c’è la musica, quasi costantemente. La colonna sonora di Boyhood è stata lodata per essere molto ricercata, per il modo in cui le tracce delle canzoni ripercorrono la cronologia del film, dalla lucentezza degli anni 2000 con Yellow dei Coldplay nelle prime scene fino alla canzone del 2014 di Jeff Tweedy Summer Noon sui titoli di coda.
Eppure il mondo sonoro del film è più di uno sconclusionato mixtape; il suono di Boyhood saltella intelligentemente tra la musica che esiste nel mondo stesso del film – un personaggio che ascolta una band dal vivo o che inserisce un cd nel lettore – e la musica che esiste soltanto dietro la telecamera e sente solo lo spettatore, come funziona nella composizione convenzionale. Anche se Boyhood si rivela attraverso le orecchie di Mason, è suo padre – interpretato da Ethan Hawke – la guida spirituale musicale del film. Il padre di Mason è un ex musicista frustrato con un orecchio critico, un uomo che scrive canzoni per i suoi figli per compensare la sua evanescenza nelle loro vite. Il suo amore per la musica è viscerale, pazzo e bellissimo allo stesso tempo, e in ultima analisi non trasferibile. A un certo punto cerca disperatamente di spiegare la grandiosità della canzone Hate it Here dei Wilco a suo figlio, che non sembra comprendere a pieno o interessarsene del tutto. Alla fine i figli non sono destinati ad ereditare gli stessi gusti dei genitori: sarebbe un mondo davvero noioso, altrimenti.
Eppure in una delle scene più toccanti del film il padre consegna al figlio una compilation realizzata da lui con i migliori brani pubblicati dei membri dei Beatles dopo lo scioglimento dei Beatles, accuratamente scelti e alternati tra loro, intitolata “Beatles: Black Album”. Mentre la macchina scorre sulla strada, si diffonde l’intro della canzone dei Wings Band on the Run, e sembra che sorpassi i limiti dell’autoradio che apparentemente la sta suonando. Questa cosa insomma accade sia dentro che fuori dal mondo del film, in contemporanea, confondendo il confine tra suono e luogo, e facendo ciò crea un bellissimo momento di scoperta, di connessione, tra le persone nel film e il pubblico che lo sta guardando. È un momento degno di essere venerato.
Boyhood gioca con la doppia identità della musica pop, che è allo stesso tempo evanescente, attuale, effimera e senza tempo, mentre offre una testimonianza potente e profonda di come funziona la musica nella nostra vita di tutti i giorni. La scorsa estate Linklater, mentre discuteva le scelte musicali del suo film, ha detto a un giornalista: «Dovevano essere canzoni di quel tempo. La musica deve ovviamente scatenare nostalgia e ricordi». Ma uno degli aspetti più interessanti della colonna sonora di Boyhood è il tipo di ricordi che scatena. Il remix di Travis Barker Crank That di Soulja Boy, Anthem Part Two dei Blink 182, Good Girls Go Bad dei Cobra Starship… tutte queste canzoni possono produrre ricordi ma alle mie orecchie non suonano certo nostalgiche, e proprio questo rende la loro inclusione così avvincente: riflettono i gusti delle persone che abitano il film, piuttosto che i gusti delle persone che lo hanno fatto (o di quelle che lo guardano).
Una delle peggiori e migliori cose della musica pop è che entra nella nostra vita anche quando non la vogliamo, in un modo che si differenzia da quasi tutti gli altri tipi di arte. Se non vi piacciono Mad Men o i film con i supereroi o i racconti di Cormac McCarthy, potete in qualche modo evitarli; se non vi piacciono Beyoncé o gli U2 o i Beatles, la cosa è decisamente più difficile. Il nostro consumo di musica è allo stesso tempo voluto e involontario, e un essere umano passa moltissimo tempo ad ascoltare musica che non gli piace particolarmente.
Ovviamente essere giovani vuol dire passare un sacco di tempo ad ascoltare musica che ci piace in quel momento ma che non gradiremo particolarmente tra un anno o dieci o venti. Le colonne sonore delle nostre vite sono stupende e irritanti, nobilitanti ed imbarazzanti, e una sola parte è niente senza le altre. È difficile che i film ne tengano conto, di solito, il che è normale; sicuramente è emozionante vedere due persone che condividono un momento privato in una tenda mentre suona una misteriosa copia in vinile della versione americana di Between the Buttons, con l’ordine dei brani autorialmente rimescolato. Ma è emozionante esattamente perché è il tipo di cosa che di norma non capita. La musica nei film può essere una forma spettacolare di escapismo, ma anche qualcosa di più.
Se c’è una canzone che è arrivata a definire Boyhood, è la canzone Hero del 2012 dei Family of The Year, presente nel trailer e anche nel film stesso, peraltro in un’altra scena che si svolge in una macchina, che funziona similmente alla scena di Band on the Run. È una scena commovente e la canzone un po’ indie rock ci sta alla perfezione. Dopo aver visto il film per la prima volta sono tornato a casa e l’ho ascoltata, e sono rimasto sorpreso nello scoprire che non mi piaceva più così tanto; sembrava semplice, affettata, un po’ troppo infatuata dal suo stesso fascino. Sembrava come quando hai diciassette anni: e io ho sorpassato quel periodo, com’è giusto.
© Slate 2015