Putin è cattivo, triste o arrabbiato?
L'Economist ha messo insieme le tre principali teorie che provano a spiegare perché la Russia si sia immischiata nella guerra in Ucraina
Il recente accordo raggiunto tra Ucraina e Russia sulla guerra in Ucraina orientale ha riportato l’attenzione delle grande testate internazionali su quello che sta succedendo da oltre un anno in territorio ucraino. Alcuni si sono chiesti per esempio come mai fosse necessario convincere il presidente russo Vladimir Putin a firmare una tregua, dal momento in cui il governo russo ha sempre negato di essere coinvolto nella guerra tra esercito ucraino e ribelli separatisti filo-russi. Ma senza la firma di Putin non ci sarebbe stata alcuna tregua. Negli ultimi giorni il governo ucraino ha detto che centinaia di carri armati russi sono entrati in Ucraina orientale, per aiutare i ribelli nei combattimenti (che dureranno, nella migliore delle ipotesi, fino alla mezzanotte tra sabato 14 e domenica 15 febbraio, quando entrerà in vigore la tregua): si tratta comunque dell’ultimo episodio di molti di questo tipo, denunciati ripetutamente da governo ucraino, NATO e stampa occidentale.
Uno dei punti che rende più difficile capire cosa sta succedendo in Ucraina – chi combatte e perché, soprattutto – è il ruolo della Russia nella guerra. Molti analisti e giornalisti si chiedono da mesi come mai Putin si sia immischiato in quella guerra: nessuno crede che le risorse che la Russia potrebbe ottenere anche annettendo le autoproclamate Repubbliche Popolari di Donetsk e Luhansk valgano lo sforzo militare e soprattutto le sanzioni economiche dell’Occidente. Inoltre i russi non erano “perseguitati” in Ucraina e il governo ucraino non è “fascista”: non nella misura descritta dalla propaganda russa. L’Economist, che ha dedicato l’ultima copertina a Putin (“La guerra di Putin contro l’Occidente”), ha pubblicato un articolo che riassume in tre termini le teorie finora più credibili che hanno provato a spiegare il coinvolgimento della Russia nella guerra in Ucraina. Si riferiscono tutte e tre a Putin e sono le teorie del “cattivo”, “arrabbiato” e “triste”.
Teoria del “cattivo”. I sostenitori di questa teoria credono che la Russia stia sfruttando e allo stesso tempo accentuando le debolezze dell’Occidente: l’Europa è divisa, gli Stati Uniti si stanno generalmente disimpegnando dal contesto internazionale. È il momento giusto per il governo russo di ristabilire la sua egemonia grazie all’energia, risorsa che la Russia possiede in abbondanza, la propaganda e la corruzione.
Teoria dell’“arrabbiato”. Chi sostiene questa teoria crede che Putin, così come molti autocrati prima di lui, abbia mescolato un forte nazionalismo con l’idea di imperialismo russo. Putin ha cominciato a inventare con sempre maggiore frequenza e avventatezza nuove minacce provenienti dall’Occidente, per poi controbilanciarle con un atteggiamento aggressivo e imperialista.
Teoria del “triste”. Si basa sulla debolezza della Russia, dovuta a un’economia stagnante, una corruzione endemica e delle infrastrutture fatiscenti. Putin è arrivato al potere e lo ha conservato durante un aumento notevole dei profitti derivanti dalla vendita di petrolio e gas, un meccanismo però che prima o poi si esaurisce. La propaganda e le dimostrazioni di forza non possono sostituire la solidità e forza dell’economia.
L’Economist scrive che probabilmente c’è del vero in tutte e tre le teorie, ma tutte e tre non sono una buona notizia per l’Ucraina e lasciano ben poche speranze per un ritiro rapido della Russia dalla guerra. In un altro articolo sempre l’Economist cita la “paranoia dell’accerchiamento” di cui soffre Putin: le paure russe di un ipotetico allargamento della NATO verso est sono state citate spesso come una delle ragioni più dirette del coinvolgimento russo in alcuni territori dello spazio ex-sovietico, tra cui l’Ucraina orientale, la Bessarabia e la Transnistria. L’Economist scrive che «per Putin il solo vicino buono è un vicino debole: e i vassalli sono meglio degli alleati». Nel 2013 Fiona Hill e Clifford Gaddy, due analisti di Brookings Institution, hanno scritto uno dei più autorevoli libri sulla personalità di Putin: “Putin: Operative in the Kremlin” (da poco è stata pubblicata una nuova versione del libro con cinque nuovi capitoli). Hill e Gaddy spiegano quanto sia difficile capire Putin, soprattutto perché, come sintetizza il Washington Post:
«Il suo posto nella storia è inusuale: è un prodotto del collasso dell’Unione Sovietica, ma durante la perestroika lavorava come spia del KGB a Dresda, nell’allora Germania dell’Est. Questo ha influenzato come lui oggi governa la Russia. “C’è una sistema sicurezza-centrico, guidato da uno che è un operativo dell’intelligence”, dice Gaddy. “E non c’è mai stato niente di simile nella storia moderna”»