E com’è questo disco di Bob Dylan?
Beh, intanto non è "proprio" di Bob Dylan: è una specie di disco di Frank Sinatra di Bob Dylan, un po' monocorde ma se ne parla molto bene
Il 3 febbraio è uscito il 36esimo disco in studio di Bob Dylan. Si intitola Shadows in the Night e contiene dieci canzoni, nessuna delle quali è stata scritta da Dylan, o per Dylan: sono tutti classici “standard” jazz degli anni Cinquanta, molti dei quali interpretati in passato da Frank Sinatra (per questo è stato descritto come “disco di cover di Frank Sinatra”, ma è una definizione imprecisa). Shadows in the Night è il quarto disco di Dylan negli ultimi dieci anni: l’ultimo era stato Tempest, uscito nel 2012 e contenente solo canzoni originali. Non è ancora in programma un tour per promuovere Shadows in the Night, sebbene sia probabile che verrà annunciato più avanti (Dylan ha concluso in dicembre una serie di concerti nel Nord America ma è costantemente in tour dal 1988). Le recensioni del disco pubblicate finora ne parlano piuttosto bene.
Dylan ha rilasciato una sola intervista per parlare del disco: è stata pubblicata da AARP Magazine, una rivista destinata a lettori con più di 50 anni: scelta tra il coerente e lo spiritoso, per uno che è stato il mito di una nuova musica giovanile, ora ha 73 anni, e canta canzoni che cantava Sinatra. Scherzando sul fatto che «molti dei vostri lettori apprezzeranno questo disco», Dylan spiega però che non si sente un «archeologo musicale» e che il suo intento è «far legare le persone ad alcune canzoni alle quali io stesso sono legato».
Cos’è stato Bob Dylan, ultimamente
In molti ritengono che Bob Dyan stia ancora attraversando un periodo di “rinascimento” della sua carriera, iniziato nel 1997 con il disco Time Out of Mind (uno dei suoi più apprezzati degli ultimi decenni), dopo che negli anni Ottanta aveva pubblicato dischi meno convincenti. Da Time Out of Mind in poi, ogni suo disco – a parte quello natalizio del 2009 – è entrato nella classifica dei primi dieci dischi più venduti degli Stati Uniti, due addirittura al primo posto (Modern Times e Together Through Life, rispettivamente del 2006 e del 2009). Nel frattempo, Dylan ha tenuto centinaia di concerti in giro per il mondo.
Dylan è probabilmente l’unico musicista degli anni Sessanta ad avere ancora oggi un successo così esteso e trasversale: lui stesso sembra rendersene conto quando durante l’intervista ad AARP Magazine dice che ai suoi concerti vede «un tizio in cravatta e camicia seduto vicino a uno coi jeans. E più in là uno con una giacca sportiva vicino a uno con indosso una t-shirt. E vedo donne con lunghi vestiti da sera accanto a ragazzine punk. Vado a un concerto di Elton John, invece, e ci sono tre generazioni di persone: ma sono tutte uguali. Persino i bambini assomigliano ai propri nonni».
Il critico musicale Jack Hamilton, ancora due anni fa, raccontava sull’Atlantic di avere cominciato ad apprezzare Dylan a 22 anni, dopo aver ascoltato la canzone Mississippi del disco Love and Theft, uscito nel 2001. E che in generale, cosa assai rara per un musicista in giro da decenni, si può dire che «i suoi lavori degli ultimi quindici anni siano stati fra i migliori della sua carriera».
Cosa si dice di Shadows in the Night
Racconta Rolling Stone – che assegna al disco quattro stelle su cinque – che Dylan «trasforma tutte le canzoni di Shadows in the Night – dieci lentoni, classici romantici del pop americano che ancora non si chiamava pop – in leggere composizioni di bassi appena accennati e gutturali tremolii di chitarra elettrica». Una delle cose più sorprendenti, aggiunge Rolling Stone, è che Dylan canti: notevole, dopo anni di voce «da carta vetrata». Anche Alexis Petridis, sul Guardian, lo nota, aggiungendo che «è stato detto molto sullo stato di voce di Dylan in questi anni. Molti degli autori di queste canzoni avevano la metà dei suoi anni, quando le scrissero: e però la voce di Dylan sul disco suona convenzionalmente “meglio” di quanto abbia fatto negli ultimi anni. Presumibilmente perché canta in maniera più leggera: fa del crooning, se volete». Molti critici notano anche il gusto di Dylan per l'”antologia”, e il suo voler riferirsi esplicitamente a generi musicali che lo hanno ispirato e che sono stati importanti per un certo periodo (Dylan ha anche fatto qualche disco blues, negli anni).
Moltissime delle canzoni del disco sono state cantate come cover dai musicisti più disparati, negli anni, dai quali Dylan ha preso delle cose: il New Yorker fa l’esempio dell’ultima canzone del disco, That Lucky Old Sun: negli anni è stata ripresa fra gli altri da Louis Armstrong, Jerry Lee Lewis, Brian Wilson, Johnny Cash, Sam Cooke, Ray Charles e Aretha Franklin.
La versione di Dylan, ben consapevole di tutte quelle precedenti, riesce comunque a costruirsi una propria identità. Apre con il suono di un corno come quella di Jimmy Webb (cioè quella di Sinatra), e quello che segue è una cosa più triste ed esausta della versione di Ray Charles, cantata con il tono di chi è saggio ma è incerto sui benefici di un tale sapere. Come Johnny Cash, Dylan è in difficoltà quando secondo il testo della canzone viene “portato su, in paradiso”. Come Sam Cooke, crede davvero che i suoi problemi saranno spazzati via. Come Brian Wilson, è determinato a trasformare la sua nostalgia in qualcosa di produttivo. Il verso finale è tutto di Dylan, ed è un commiato potente.