Cosa vuol dire la sentenza su Serbia e Croazia
La decisione della Corte internazionale di giustizia sulla guerra degli anni Novanta – salomonica, "ma di un Salomone che ha tagliato in due il bambino" – spiegata da Adriano Sofri
Adriano Sofri racconta su Repubblica perché la Corte internazionale di giustizia dell’Aia ha respinto le accuse reciproche di genocidio che negli ultimi anni si erano mosse la Serbia e la Croazia, per i fatti delle guerre nei Balcani, facendo alcune considerazioni sugli strumenti e le regole che i tribunali internazionali hanno a disposizione per risolvere questo tipo di contenziosi.
La Corte Internazionale di Giustizia ha pronunciato ieri, dopo un processo durato oltre quindici anni, il suo verdetto: né la Serbia né la Croazia hanno commesso, l’una ai danni dell’altra, nel corso della guerra tra il 1991 e il 1995, il crimine di genocidio. L’accusa era stata mossa nel 1999 dal governo croato, avendo per oggetto soprattutto la distruzione di Vukovar; la Serbia aveva a sua volta denunciato la Croazia nel 2010, evocando la cacciata dei serbi della Kraijna nella cosiddetta “Operazione Tempesta” che mise fine alla guerra. La sentenza dà un’interpretazione decisamente restrittiva del crimine di genocidio: nelle parole del presidente slovacco Peter Tomka, “atti di pulizia etnica possono far parte di un piano genocida, ma solo se c’è l’intenzione di distruggere fisicamente il gruppo che ne è bersaglio”. La decisione è stata presa con una maggioranza di 15 voti a 2 per la denuncia croata; all’unanimità (dunque anche il giudice serbo) per quella di Belgrado.
Prima di valutare la sentenza, è bene districarsi in un ingorgo istituzionale. All’Aia hanno sede ben tre tribunali internazionali. La Corte di Giustizia esiste dal 1945, è il tribunale mondiale delle Nazioni Unite, ed è competente per le vertenze fra gli Stati: perciò ha giudicato del caso fra Croazia e Serbia. La Corte Penale, in funzione dal 2002, è incaricata di giudicare gli individui colpevoli di gravi crimini internazionali che gli Stati non sanno o non vogliono perseguire (non vi aderiscono, fra altri, Stati Uniti, Russia e Cina). Il Tribunale Penale per l’ex-Jugoslavia, istituito dall’Onu nel 1993, è competente per genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità, commessi da persone nei conflitti di Croazia, Bosnia Erzegovina, Kosovo e Macedonia. Quest’ultima ha raggiunto la sua scadenza, salvo completare i processi a Ratko Mladic e Radovan Karadzic, per cui è attesa la sentenza a mesi. Questa corte ha emesso nel 2004 condanne per genocidio contro imputati serbo-bosniaci del massacro di Srebrenica, luglio 1995: alcune di queste condanne (all’ergastolo, che è il massimo della pena) sono state confermate in appello venerdì scorso.
Dunque la sentenza di ieri non riguarda Srebrenica -8 mila assassinati in quella che l’Onu aveva dichiarato Zona protetta, ammucchiati in fosse comuni per cancellarne le tracce: fu genocidio. La Serbia, secondo la Corte, fu colpevole “solo” per non aver impedito che si compisse.
La sentenza di ieri –salomonica? Ma di un Salomone che ha tagliato in due il bambino- era probabilmente inevitabile di fronte a una fattispecie di reato come il genocidio che, sempre più evocato nel linguaggio comune a descrivere gli orrori, è sempre meno definito tecnicamente, e ancor meno osservato. Infatti il problema col genocidio non è solo la definizione sfuggente, nella qualità e nella quantità, ma anche l’obbligo per la comunità internazionale di intervenire ad arrestarlo.
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Nella foto: il cimitero di Vukovar, in Croazia – AP Photo/Darko Vojinovic