Re Abdullah era un riformatore?
Il sovrano saudita morto nei giorni scorsi è stato definito così da personaggi e giornali importanti, nonostante guidasse uno dei paesi più repressivi e conservatori al mondo
Da qualche giorno alcuni grandi giornali internazionali stanno discutendo su che tipo di re fosse stato Abdullah, il sovrano dell’Arabia Saudita la cui morte è stata annunciata nella notte tra il 22 e il 23 gennaio. Alcuni siti di news come il New York Times, il Washington Post e BBC lo hanno definito un “riformatore”, interpretazione molto criticata da diversi giornalisti e commentatori. Molti leader mondiali hanno partecipato alla cerimonia funebre di re Abdullah, o hanno inviato dei loro rappresentanti. Altri lo hanno definito pubblicamente un personaggio politico che ha favorito il progresso e la modernizzazione dell’Arabia Saudita: era difficile comunque aspettarsi dure critiche dai paesi occidentali, visto che il governo saudita è considerato uno dei pochi solidi alleati rimasti agli Stati Uniti in Medio Oriente (solo alcuni gruppi estremisti sciiti e lo Stato Islamico hanno festeggiato pubblicamente la morte di re Abdullah).
Christine Lagarde, direttrice del Fondo Monetario Internazionale, ha fatto una delle dichiarazioni su re Abdullah più riprese e criticate dalla stampa. Lo ha definito «un paladino dei diritti delle donne», anche se in maniera «molto discreta». La definizione di Lagarde è stata ritenuta da molti bizzarra, visto che l’Arabia Saudita è un paese dove le donne sono legalmente sottomesse agli uomini, non possono guidare l’automobile e non godono di quasi nessun diritto civile. Più in generale, ci sono pochi dubbi sul fatto che oggi l’Arabia Saudita sia uno dei luoghi al mondo dove i diritti umani, civili e politici sono meno rispettati: è una monarchia assoluta dove le critiche alla famiglia reale e alla religione islamica non sono permesse. Esiste un certo spazio per criticare alcuni aspetti del regime, ma quello di giornalista è comunque un mestiere pericoloso, come hanno dimostrato anche i molti arresti di giornalisti e blogger degli ultimi mesi. Sotto il regno di Abdullah non c’è stato un particolare miglioramento da questo punto di vista. Lo scrittore Andrew Brown ha scritto sul Guardian che Abdullah «incarnava la depravazione del regime saudita».
Secondo la giornalista Robin Wright la questione è un po’ più complessa e, sul New Yorker, ha dato una definizione di re Abdullah che in qualche maniera chiarisce i termini della questione.
Comparato ai principi conservatori e agli ultra-conservatori che fanno parte del clero wahabita, Abdullah era considerato un saggio e schietto modernizzatore, se non proprio un riformatore (almeno per gli standard sauditi).
In effetti, anche i più critici nei confronti della monarchia saudita hanno detto che Abdullah ha compiuto alcune riforme nel suo paese. Il Guardian, nel suo editoriale su re Abdullah, è sostanzialmente d’accordo con questa definizione.
[Abdullah] non era un uomo cattivo e il suo regno dimostra che parte dell’élite che appartiene alla famiglia reale è più liberale, in senso molto ampio, di gran parte della società saudita e del suo clero.
Si tratta di un punto sottolineato da molti commentatori: Abdullah non era un re particolarmente illuminato per gli standard occidentali, ma comunque ha aiutato a modernizzare un paese dove gran parte delle persone e delle forze sociali sono ostili al cambiamento. Il Guardian ha scritto che una di queste forze è il potentissimo clero saudita, rappresentato dal consiglio degli Ulema, l’assemblea che raccoglie le più importanti figure religiose del paese. Definire l’Arabia Saudita una monarchia assoluta, infatti, è abbastanza improprio: per quanto la famiglia reale sia effettivamente molto potente, l’esercizio della sua autorità deve fare i conti con il clero, che controlla gran parte delle scuole del paese e il sistema giudiziario.
Il rapporto tra la famiglia regnante al-Saud e l’establishment religioso è profondo e antico. La legittimità della casa reale essenzialmente deriva dall’aderenza alla particolare forma di Islam che si pratica nel paese: il salafismo (che nel caso dell’Arabia è più propriamente indicato come “wahabismo”, anche se gli stessi sauditi preferiscono il termine “salafismo”). L’alleanza tra il salafismo e quello che prima era solo uno dei potenti clan tribali dell’Arabia Saudita risale al Diciannovesimo secolo ed è stata rinsaldata più volte: l’ultima fu nel 1979, quando sul trono c’era Khalid, fratellastro di Abdullah.
Nel 1979 in Iran, paese rivale dell’Arabia Saudita nel Golfo Persico, ci fu la rivoluzione khomeinista e il paese divenne una teocrazia islamica. Pochi mesi dopo, un gruppo di estremisti wahabiti assaltò la Grande Moschea della Mecca: alle forze di sicurezza saudite ci vollero due settimane e centinaia di morti per riuscire a riconquistare l’edificio. La rivoluzione iraniana e l’assalto alla moschea furono un chiaro avvertimento per i Saud. Come ha scritto il giornalista Robert Lacey nel suo libro nel suo libro Inside the Kingdom, la risposta che fu data all’epoca all’estremismo religioso fu «ancora più religione». Negli anni Ottanta in tutta l’Arabia Saudita furono vietate le fotografie di donne sui giornali, si diffuse ovunque l’uso del niqab (il velo che lascia scoperti soltanto gli occhi), mentre l’esercizio della giustizia e dell’istruzione fu completamente consegnato nelle mani del clero. Di fatto il paese intraprese una vera e propria “marcia indietro” rispetto al percorso di prudente modernizzazione che sembrava avere avviato a partire dal boom petrolifero degli anni Cinquanta.
L’importanza del clero nella società saudita si è vista nel 2005, quando si sono svolte una serie di elezioni per alcuni consigli municipali locali (era dagli anni Sessanta che non si tenevano più elezioni di alcun genere nel paese). Quasi ovunque, anche nelle grandi città considerate più liberali, hanno vinto i candidati appoggiati dal clero più conservatore. Come ha scritto il Guardian, Abdullah è entrato diverse volte in conflitto con la parte più conservatrice della società e a volte è riuscito a imporre riforme o cambiamenti, soprattutto nell’economia. Abdullah ha portato l’Arabia Saudita ad aderire all’Organizzazione Mondiale del Commercio, modernizzando alcuni aspetti del sistema legale del paese e rendendo l’economia saudita più aperta di come era in precedenza.
Alcuni piccoli progressi sono stati fatti anche nel campo dei diritti umani. Per le elezioni municipali del 2015, Abdullah ha concesso il voto anche alle donne e ha creato la prima università con classi miste del paese (esistevano già scuole con classi miste, ma furono chiuse dopo il 1979). Per far approvare il suo progetto di università, il re è arrivato allo scontro frontale con alcuni dei membri più conservatori del consiglio degli Ulema, costringendo uno di loro alle dimissioni. Abdullah ha anche patrocinato un ampio programma di riforme scolastiche che prevedono alcune modifiche al curriculum di studio in alcune scuole, diminuendo le ore dedicate allo studio della religione e aumentando quelle riservate alle altre materie.
Viste da occidente però sembrano tutte insufficienti per un paese dove le mutilazioni sono ancora considerate una punizione accettabile e dove la polizia si riserva il diritto di arrestare e imprigionare i cittadini senza alcuna forma di processo. Come ha scritto il Guardian, quale che sia il giudizio su Abdullah: «Il prossimo re dovrà muoversi con più convinzione lungo la strada che il suo predecessore ha percorso soltanto timidamente».