La versione di Orfini
Il presidente del Partito Democratico giudica "doloroso e politicamente incomprensibile" il voto della minoranza contro la legge elettorale in un post su Facebook
Matteo Orfini, presidente del Partito Democratico, è intervenuto con un post su Facebook sulla discussione a proposito del voto di mercoledì al Senato sul nuovo progetto di legge elettorale: voto con il quale è stato approvato un importante emendamento da una maggioranza in cui è stato decisivo l’appoggio di alcune decine di deputati dell’opposizione, visto il voto contrario di diversi deputati del PD appartenenti a una combattiva minoranza dissidente dal segretario Matteo Renzi.
Se vogliamo parlare seriamente di quello che è accaduto al Senato dobbiamo sgombrare il campo dalle ipocrisie e dalle strumentalizzazioni. E guardare al merito. Quando mesi fa fu presentato il primo testo della nuova legge elettorale, molti di noi avanzarono critiche puntuali. Pochi misero radicalmente in discussione l’impianto della legge (io ero tra questi, soprattutto per la presenza del premio di maggioranza di coalizione), altri suggerirono correzioni. La minoranza del Pd inizialmente enfatizzò la necessità di ottenere il doppio turno, che Berlusconi non voleva. E il doppio turno entrò nella legge. Successivamente fu giustamente segnalato che le soglie di accesso alla rappresentanza erano troppo alte e rischiavano di produrre un vulnus democratico grave. Le soglie sono state modificate recependo quelle indicazioni e superando l’ostilità di Berlusconi. Esattamente come è successo col premio di lista che ha sostituito quello di coalizione (cambiamento dal mio punto di vista assolutamente decisivo). L’italicum iniziale prevedeva listini bloccati. La minoranza del Pd ne chiese a gran voce il superamento e l’inserimento delle preferenze di genere. Ovviamente Berlusconi era contrario. Oggi ci sono le preferenze (parzialmente, in ogni collegio il capolista è indicato dal partito) e c’è l’alternanza di genere.
Dunque la legge elettorale oggi è perfetta? No. E’ frutto di un compromesso con le altre forze di maggioranza e con quelle di opposizione. Un compromesso reso necessario dai numeri in parlamento: da soli non avremmo i voti per approvare una legge elettorale. E anche li avessimo sarebbe sbagliato farlo. In campagna elettorale, quando Bersani era segretario e candidato premier, spiegammo al paese che su riforme e legge elettorale avremmo cercato l’accordo con tutte le forze politiche, perché le regole del gioco si scrivono insieme.
Ricordo questi passaggi perché onestamente rimango colpito da alcune dichiarazioni di chi ieri ha deciso di distinguersi in aula al Senato. Tutto si può dire, ma non che non si sia cercata l’unità del Pd. I cambiamenti che ho evidenziato sono la dimostrazione di quanto in questi mesi siamo stati in grado di ascoltarci e di migliorare la legge elettorale. E di quanto abbiamo cercato e praticato il confronto. Lo abbiamo fatto sulla legge elettorale, sul jobs act e su tutti i passaggi decisivi di questi mesi. Lo abbiamo fatto negli organismi dirigenti e non nei caminetti di corrente. Onestamente non ricordo discussioni così approfondite né su quello che faceva il governo Monti, sulla riforma Fornero o sulla legge elettorale che presentammo come Pd nella passata legislatura, solo per fare alcuni esempi.
Cerchiamo di capirci su questo: si è discusso, si è mediato, si è cercato un accordo che unisse il Pd. Ieri qualcuno ha deciso al Senato di non riconoscere questo lavoro e ha votato in modo difforme da quello che insieme avevamo deciso. Per fortuna questa scelta non ha vanificato mesi di lavoro comune. E’ una scelta che non condivido, che fatico ad accettare per l’idea di partito che ho e che considero un grave errore. In questa legislatura -che per me è la prima- mi è capitato diverse volte di votare come deciso dalla maggioranza dopo che avevo perso una battaglia interna. E’ stato così sul governo Letta (molti di quelli che oggi si indignano perché si fanno le riforme con Forza Italia erano allora in prima fila a chiedere di farci un governo insieme, per la cronaca), è stato così sull’abolizione del finanziamento pubblico e in tanti altri passaggi difficili. Mi sono comportato così perché lavorare a costruire un partito più forte significa anche saper lavorare per unire e non per dividere. E sforzarsi di riconoscere una buona sintesi tra posizioni diverse quando la si raggiunge. Sulla legge elettorale l’abbiamo raggiunta.
Per questo quanto accaduto ieri oltre che doloroso, è politicamente incomprensibile.
Temo c’entri molto l’idea coltivata da alcuni -da una parte e dall’altra- che sia indispensabile mantenere vive le divisioni congressuali anche a congresso finito, cristallizzando la nostra dialettica in un perenne scontro tra maggioranza e minoranza. Ma così si nega la possibilità stessa di una sintesi, perché renderebbe quella divisione obsoleta. E ci trasformiamo tutti in tifosi, come spesso accade qui sui social network. Ma la politica è un’altra cosa dalla logica binaria del mi piace/non mi piace e dalle risse tra tifoserie.
Cerchiamo di non dimenticarlo.
(LaPresse)